Articolo originale di Lawrence Lessig pubblicato su Politico.com il 22/12/2013: Why They Mattered: Aaron Swartz (1986-2013). Traduzione di Bernardo Parrella.
A gennaio abbiamo perso Aaron Swartz, suicidatosi a 26 anni. O meglio, vista l’ampia portata e il profondo spessore del suo impegno: a gennaio tutti noi abbiamo perso Aaron Swartz.
Quando aveva 14 anni, Aaron ci diede l’RSS — il protocollo operativo che distribuisce automaticamente l’informazione su Internet. Due anni dopo, sviluppò l’architettura tecnica per Creative Commons — un sistema di licenze libere nel diritto d’autore per autorizzare la libera condivisione delle opere creative. In seguito contribuì al progetto Open Library per la catalogazione dei libri online. Liberò, in modo legale, i documenti giudiziari raccolti nel database federale a pagamento PACER, portando così alla drastica riduzione dei costi di molti servizi legali. Realizzò una componente tecnica fondamentale per il sito d’informazione Reddit, partecipando alla comproprietà di quell’azienda di grande successo. E, poco prima di morire, stava concludendo la messa a punto di una serie di strumenti capaci di rendere incredibilmente più efficace l’attivismo online.
Eppure Aaron non era soltanto, né soprattutto, un computer geek. Il suo tratto cruciale era l’impegno continuo per quel che credeva fosse giusto. Più di chiunque altro abbia mai conosciuto, Aaron seguiva soltanto il proprio istinto di giustizia. Aveva fatto fortuna quasi per caso, grazie al suo lavoro con Reddit, usandone poi i soldi per le battaglie che riteneva giuste — a prescindere dal contesto. Fino a quando una di queste battaglie non gli è sfuggita di mano.
Due anni prima di suicidarsi, Aaron venne arrestato dalla polizia di Cambridge, per essere entrato abusivamente nel campus del Massachusetts Institute of Technology (MIT) con “l’intenzione di commettere un reato grave”. In uno sgabuzzino del MIT era stato rinvenuto un computer riconducibile a lui che scaricava sistematicamente l’intero contenuto del database JSTOR — un archivio di articoli accademici. Secondo l’opinione della polizia di Cambridge, e poi del MIT e dell’FBI, e infine perfino dei servizi segreti, dev’essere proprio sbagliato scaricare milioni di documenti senza il permesso del sito che li ospita.
Aaron riteneva però che a sbagliare fosse quest’ultimo. Pur se non potremo mai sapere con esattezza le sue motivazioni, nei mesi precedenti all’arresto si era espresso in maniera sempre più esplicita contro l’ingiustizia ai danni del mondo in via di sviluppo nel mantenere sotto chiave le ricerche accademiche dietro il “paywall” dei Paesi ricchi. Qualcosa di ingiusto e di stupido. Nessuno degli autori dei testi che Aaron stava scaricando aveva intenzione di limitarne la distribuzione. E nessuno di loro riceveva compensi maggiori per via di quelle restrizioni.
Piuttosto, il fatto che JSTOR mantenesse il controllo di quei materiali non era altro che la conseguenza di un diritto d’autore fatto per il mondo fisico, di un sistema che non riusciva a star dietro alle novità imposte dal digitale. JSTOR aveva fatto un buon lavoro ampliando la disponibilità delle ricerche accademiche tramite le biblioteche ed altri abbonamenti a pagamento. Aaron però appariva impaziente: quale poteva mai essere il motivo, chiese a me e ad altri, per bloccare l’accesso diffuso a questa mole di conoscenza? Qualche mese prima del suo arresto, disse agli studenti d’informatica della Università dell’Illinois di Urbana-Champaign che avevano “l’obbligo morale” di usare il loro accesso privilegiato a quella conoscenza per metterla a disposizione di tutti, in ogni parte del mondo. Presumibilmente la sua deviazione nello sgabuzzino del MIT era dovuta a quel medesimo “obbligo morale”.
È importante tenere a mente quanto fosse circoscritta la posizione di Aaron in questo caso. La sua critica, in parole e fatti, non era diretta al diritto d’autore in generale. Non venne accusato di aver scaricato l’archivio dei film della Sony o di aver creato un programma tipo Napster per facilitare l’accesso gratuito alla musica. La sua critica prendeva di mira un aspetto specifico: l’esistenza o meno di qualche buona ragione a livello di copyright per bloccare l’accesso a quei testi accademici. I rispettivi autori non erano d’accordo con una tale decisione: in fondo il “paywall” non portava loro alcun incentivo. Era un ostacolo tutt’altro che necessario e, secondo Aaron, immorale alla diffusione degli ideali dell’Illuminismo.
Eppure il tempo impiegato a predisporre quel computer nello sgabuzzino del MIT era soltanto una deviazione del suo percorso. Anche se Aaron viveva con passione quella causa, non si trattava certo della più importante. Non era neppure la battaglia che gli stava più a cuore quando venne arrestato. Nel gennaio 2011, il suo impegno era focalizzato per lo più sulla riforma politica. Insieme a David Segal, ex consigliere statale del Rhode Island, aveva lanciato un’organizzazione per promuovere l’attivismo online a cui aveva aderito un milione di persone, Demand Progress, mirata alla giustizia e alla parità sociale. E dopo l’inattesa vittoria che, grazie anche al suo contributo, portò al ritiro dell’ennesima normativa “anti- pirateria” voluta da Hollywood – il SOPA/PIPA, Stop Online Piracy Act e Protect IP Act — sognava di riproporre quella stessa tecnologia da lui ideata per collegare tra loro tutti gli attivisti interessati a rivitalizzare quella democrazia americana che troppi consideravano ormai perduta.
A quel punto Aaron fu coinvolto in una vicenda di stampo kafkiano, una battaglia di due anni con un procuratore federale super zelante, deciso a dare una lezione a questo ragazzo per quell’atto illecito, senza però rendersi conto di contribuire così a trasformarlo in un martire.
Sapevo della disperazione che lo affliggeva mentre vedeva dissipare la sua fortuna in spese legali e ribadiva più volte che, all’interno della rete aperta del MIT, il suo comportamento non era affatto criminale. Le autorità si mostrarono però irremovibili. Come spiegò anzi al MIT lo stesso procuratore, furono proprio le proteste pubbliche di Aaron contro il procedimento giudiziario a farlo diventare un “caso istituzionale”. Ciò voleva dire, per come l’intendo io, che una punizione proporzionale al reato commesso era ormai fuori discussione. Aaron fu messo davanti alla minaccia di scegliere tra parecchi anni di carcere o rinunciare ai suoi diritti politici dichiarandosi colpevole di un reato penale. Di fronte a queste due opzioni, ne scelse una terza.
Molti di noi continueranno a chiedersi se avrebbero potuto fare qualcosa di più per salvare Aaron. È questa la crudele conseguenza di ogni suicidio. L’autore di un rapporto sul comportamento del MIT durante il caso giudiziario lamentava che quanti tra noi “avevano agito da mentori per Swartz, aiutandolo a raggiungere … la genialità” non erano però riusciti a trasmettergli la “seykhel — bellissimo termine Yiddish per indicare la combinazione tra intelligenza e buon senso”.
Forse è così, ma rimango scettico. Aaron dimostrava una dose infinita di buon senso. Ma aveva anche un urgente impulso verso la giustizia sociale. Il suo errore è stato quello di credere che il nostro sistema giudiziario avrebbe dimostrato sufficiente saggezza da riconoscere questo suo aspetto, e accordargli il perdono. Oppure che il MIT — dove aveva lavorato il padre e dove studiava il fratello, e con il quale aveva collaborato più volte — avrebbe esteso a quell’atto di hacking etico lo stesso atteggiamento tollerante già applicato tante volte ai suoi studenti.
Forse quelli tra noi che sono stati i suoi mentori avrebbero dovuto spiegargli meglio che queste istituzioni valgono meno di quanto egli credesse. O magari dovremmo impegnarci nel renderle migliori di quello che lui pensava fossero già.
Lawrence Lessig insegna giurisprudenza e leadership presso la Harvard Law School.