Say yes to everything. I have a lot of trouble saying no, to a pathological degree – whether to projects or to interviews or to friends. As a result, I attempt a lot and even if most of it fails, I've still done something.

– A. S.

Aaron sorridente con in sovra impressione la citazione "There is no justice in following unjust laws." - Aaron Swartz (1986 - 2013) "Non c'`e giustizia nell'obbedire a leggi ingiuste"


Lo spirito di Prometeo e l'etica hacker nella vita di Aaron Swartz

Gli scritti e le azioni di Aaron Swartz ci consegnano in eredità tante preziose risposte, ma anche una tragica domanda: che cosa può spingere una mente viva e brillante a rifiutare la vita? Qual è il peso tremendo che le spalle di un individuo geniale non hanno saputo reggere?

Per capire – forse, o magari parzialmente – la storia di Aaron possiamo dare un'occhiata a percorsi analoghi nella storia della scienza. Quelli di molte persone curiose, con il dono di una mente brillante, che hanno subito la stessa sorte di Prometeo, il cugino di Zeus che sfidò gli dei per donare il fuoco agli esseri umani – punito con crudeli tormenti e atroci sofferenze per aver liberato la conoscenza e la tecnologia. E quando la sofferenza diventa troppa, c'è chi non esita a scacciarla via con ogni mezzo, anche a costo della propria vita.

Il moderno concetto di elaboratore elettronico, ad esempio, è nato da una di queste menti brillanti e perseguitate, quella di Alan Mathison Turing, che ci ha donato un'idea di “computer programmabile” che oggi ci sembra banale quanto l'accensione di un fuoco. Un'idea però fatta pagare a caro prezzo dall'olimpo perbenista di un'Inghilterra ancora impregnata della mentalità vittoriana, un olimpo compatto nel condannare Turing ad atroci sofferenze per la sua omosessualità.

Gli dei del mondo bigotto ed eterosessuale che dominava la società di quel tempo hanno reclamato la loro vittima sacrificale, e nel 1954 l'aquila che strappava il fegato a Prometeo si è trasformata nella mela al cianuro con cui Turing si è tolto la vita dopo una lunga persecuzione giudiziaria omofobica – inclusa la condanna finale alla castrazione chimica tramite somministrazione di ormoni femminili.

Negli anni '60 gli dei sono stati più benevoli, e l'ambiente in cui si è sviluppata la cultura hacker, i laboratori del MIT di Boston, era governato da un olimpo che aveva imparato a tollerare il lockpicking, la tecnica di forzare le serrature dei laboratori informatici (senza però danneggiarle), onde utilizzare liberamente le attrezzature ivi ospitate.

La pratica dell'accesso a stanze, circuiti e tecnologie di cui l'olimpo di allora vietava l'utilizzo libero, fu sviluppata da studenti curiosi del Laboratorio di Intelligenza Artificiale, che volevano “mettere le mani” su calcolatori ancora riservati ad una stretta casta di tecnosacerdoti. I prometeo delle serrature non furono mai denunciati o espulsi per effrazione o accesso non autorizzato ai laboratori, perché qualcuno riuscì a intuire il potenziale rivoluzionario (oltre che economico) di quanto stava per nascere in quelle notti insonni passate a domare bestioni elettronici e computer tutt'altro che "personali": Spacewar, il primo videogioco della storia dell'informatica, ancora oggi giocabile online.

L'altra grande eredità della prima comunità hacker fu un prezioso codice etico, inizialmente tramandato per tradizione orale e attraverso la prassi, e successivamente codificato da Steven Levy nel libro Hackers. Heroes of the Computer Revolution (1984). Sei punti chiari e cristallini che hanno guidato anche l'azione di Aaron Swartz: l'informazione vuole essere libera, l'accesso ai computer deve essere illimitato e completo, dubitare dell'autorità costituita e promuovere il decentramento, con un computer puoi creare arte, i computer possono cambiare la vita in meglio, gli hacker si valutano solo in base a quel che fanno e non in base all'età, la razza, il genere o la posizione sociale.

Uno di questi punti, l'urlo libertario Information wants to be free è poi divenuto lo slogan di varie generazioni di cyber-attivisti. Dopo l'ondata creativa degli anni '60 e la diffusione delle tecnologie informatiche negli anni '70 e '80 con il “personal computer” come icona tecnologica di liberazione ed emancipazione individuale, le cose peggiorarono a partire dagli anni '90, quando l'ira degli dei che popolavano l'olimpo delle aziende telefoniche e delle software house colpì in maniera brutale e ingiustificata altri curiosi prometeo, quelli che avevano aperto il loro computer al mondo attaccandoci un modem.

Due tra le più grandi operazioni di polizia informatica nella storia dell'umanità (divenute note col nome di Operation Sundevil e Italian Crackdo wn, colpirono, rispettivamente negli USA e in Italia, persone la cui unica colpa era una inestinguibile sete di conoscenza – «il mio crimine è la curiosità», si leggeva nel Manifesto Hacker del 1986. Era gente che attaccava un computer al telefono di casa (pagando di tasca propria salatissime bollette) per farlo funzionare di notte in automatico con chiamate notturne interurbane (e a volte internazionali), che permettevano di scambiare messaggi e documenti altrimenti inaccessibili.

I prometeo delle cosiddette “Reti di telematica sociale di base” degli anni '90, erano i tecnici solitari e appassionati che animavano le prime, rudimentali bacheche di messaggistica elettronica. Ma la repressione poliziesca stroncò nella sua piena fioritura la stagione dei Bulletin Board Systems (BBS), le bacheche di messaggistica e scambio file nate su reti amatoriali internazionali come Fidonet (e in Italia, su PeaceLink , ECN, Cybernet) che hanno preceduto l'avvento dell'Internet vera e propria, nata in università e poi diffusa alla grande dalle grandi telco nazionali.

L'olimpo che guardava il mondo con le lenti deformanti dell'ignoranza vedeva in ogni hacker un criminale informatico, senza nemmeno immaginare che nel cosiddetto “underground digitale” si stavano tracciando i confini della “nuova frontiera elettronica”. Una frontiera che ha ridisegnato i suoi confini mentre cambiavano gli utenti, i servizi e la diffusione delle tecnologie, ma che ancora oggi è il luogo di scontro e incontro tra i tecnolibertari che vogliono liberare la conoscenza per trasformare Internet nella più grande biblioteca pubblica planetaria, e i tecnomercanti che vorrebbero stabilire le regole del gioco guardando a Internet come al più grande mercato globale.

Ai giorni nostri, i fulmini scagliati contro chi prova a mettere le tecnologie al servizio dell'umanità arrivano da quell'olimpo dove le divinità che governano il copyright e basano il loro potere sul fumoso concetto di “proprietà intellettuale” sono sempre pronte a colpire chi condivide su internet il fuoco della conoscenza e dell'arte con lo stesso spirito delle biblioteche pubbliche.

L'accanimento giudiziario contro le reti di file sharing, la criminalizzazione della condivisione gratuita “tra pari” di opere dell'ingegno e la modifica delle norme sul diritto d'autore in senso sempre più restrittivo e padronale, sono solo alcuni di questi fulmini della storia recente. Ai quali vanno aggiunti quelli scagliati dall'olimpo della struttura militare più potente del pianeta, scatenatasi contro i prometeo che ne hanno carpito i segreti – diffondendoli poi al mondo intero grazie a WikiLeaks per denunciare crimini di guerra e torture contro ogni paternalistico tentativo di affermare che il popolo non può sapere tutto, e ci sono segreti da riservare soltanto agli dei.

E si arriva ai giorni nostri, con il prometeo del Datagate, quell'Edward Snowden che ha risolto nel modo più giusto, ma anche più difficile, il conflitto tra la propria coscienza e il potere di cibersorveglianza planetaria delle agenzie governative statunitensi. Un potere che a un certo punto per Snowden è diventato impossibile da tollerare nella sua terribile pervasività, spazzato via da un unico, inderogabile imperativo morale: «Il mondo deve sapere». Una voce che nemmeno le prospettive dell'esilio e della persecuzione giudiziaria sono riuscite a zittire.

Le lotte dei prometeo dell'informatica contro gli dei che volevano ingabbiare la tecnologia ci portano alla lotta personale di Aaron, fatta di lotte civili contro leggi liberticide come il SOPA/PIPA (proposta al Congresso Usa nell'ottobre 2011 e poi ritirata nel gennaio successivo) e gesti limpidi di disobbedienza civile, come la “liberazione” dall'Olimpo della rete interna del MIT di una enorme quantità di conoscenza (4,8 milioni di articoli scientifici) realizzata con un laptop e una manciata di righe di codice informatico.

Si tratta di materiali che Aaron avrebbe potuto leggere gratuitamente senza nessun problema, ma che ha voluto liberare a beneficio di tutti i “comuni mortali” a cui era proibito accedere a quelle informazioni. Il movimento dell'Open Access, al quale Aaron ha dedicato molte delle sue energie e del suo entusiasmo, rivolge ancora oggi alla comunità scientifica un invito a liberarsi dalla tirannia degli dei che la governano, un invito a scardinare la gabbia del copyright dove sono tenute in ostaggio milioni di pubblicazioni scientifiche accessibili solo pagando un “riscatto” a chi le tiene in cattività, un invito a considerare la scienza come un servizio da rendere all'umanità intera e non come una fonte di profitto per pochi individui.

Obbligare gli accademici a pagare per l'accesso alle pubblicazioni dei loro colleghi, digitalizzare intere librerie per chiuderle alla pubblica consultazione, escludere dalla letteratura scientifica i paesi impoveriti e gli studenti del sud del mondo: tutto questo per Aaron era «oltraggioso e inaccettabile», e quando si tratta di riparare un oltraggio, liberare la conoscenza e sanare una ingiustizia, il cuore di un ragazzo libero e onesto – come quello di molti di noi – si muove senza esitazione verso ciò che è sentito come giusto, e non necessariamente verso ciò che è considerato legale pur non essendo sempre legittimo.

Ed è così che nel 2011 per Aaron che libera informazioni dalla rete del MIT non c'è la stessa benevolenza usata da quella istituzione accademica mezzo secolo prima nei confronti di chi scassinava serrature di laboratori informatici off-limits. Gli dei dell'olimpo universitario sanno essere anche capricciosi e vendicativi quando non sono benevoli. Arrivano l'arresto, le indagini dell'FBI, la persecuzione giudiziaria, le accuse di crimini informatici, il rischio di una condanna fino a 35 anni di carcere. Ancora una volta gli dei dell'olimpo accademico e quelli che hanno fatto fortuna mettendo una tassa sulla conoscenza si sono severamente accaniti contro il prometeo di turno, colpevole di aver messo in discussione la loro autorità. Una punizione spietata che ci riporta alla domanda iniziale: che cosa può spingere una mente viva e brillante a rifiutare la vita?

Per quel che può valere la mia opinione, sono persuaso che il suicidio di Aaron Swartz non sia nato dal caso, da un personale disagio esistenziale, dal “mal di vivere” giovanile o da un fortuito squilibrio mentale, ma dal ripetersi del mito di Prometeo. Un mito che torna a funestare la storia della scienza ogni volta che una persona sviluppa visioni della realtà talmente geniali e avanzate da chiedere come contrappasso una profonda solitudine individuale, aggravata da incomprensione e indifferenza, e in alcuni casi finanche dal disprezzo e dalla persecuzione da parte dei propri contemporanei.

Una convinzione che trova conferma fra l'altro nelle parole di Taren Stinebrickner-Kauffman, la sua compagna degli ultimi anni, la quale nel corso di un evento pubblico per ricordarlo, ha spiegato senza mezzi termini di essere convinta che «la morte di Aaron sia stata causata dalla paura, dalla stanchezza e dall'incertezza su quello che gli sarebbe accaduto, da una persecuzione giudiziaria durata due anni che aveva già assorbito tutte le sue risorse finanziarie, da un sistema giudiziario criminale che dà priorità al potere sulla pietà e alla vendetta sulla giustizia, un sistema che punisce chi cerca di provare la propria innocenza invece di accettare patteggiamenti e ammissioni di colpevolezza che lo marchierebbero in eterno come un criminale».

In questi vent'anni di attivismo politico che ho vissuto in cyberspace, dalle BBS agli odierni social network, assieme a tanti altri sostenitori della regola d'oro Information Wants to Be Free, non c'è stato un solo giorno in cui un governo, un politico, un'azienda, una legge o un pregiudizio non abbiano attentato al diritto umano universale di «cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere» – come recita d'altronde lo stesso articolo 19 della dichiarazione universale dei diritti umani. E senza ragazzi curiosi, capaci di sfidare le regole per portare avanti quel che è e ritengono giusto, sarà un po' più difficile arginare questi tentativi restrittivi.

Nel maggio 2006 Aaron scriveva: «Un terribile effetto collaterale legato alla scoperta che il mondo non è come credevi è che questa rivelazione ti lascia totalmente solo». Nel settembre 2009 quella stessa solitudine che afflisse Alan Turing si è finalmente spezzata. Il Primo Ministro britannico Gordon Brown si è scusato ufficialmente con lo scienziato a più di mezzo secolo dalla sua morte, riconoscendo tardivamente il danno prodotto dalla stupida ottusità che ha condannato alla solitudine e alla disperazione una delle menti più brillanti nella storia dell'informatica. E la severa corona britannica ha atteso fino al dicembre 2013 per concedere il suo “Royal Pardon” allo scienziato, come se fosse lui ad avere qualcosa da farsi perdonare anche dopo morto e non l'Inghilterra a dovergli chiedere scusa.

Prima o poi, in un giorno che spero non troppo lontano, ci sarà qualcuno che chiederà scusa anche ad Aaron per averlo isolato volutamente, per aver deciso di non sostenerne le pratiche a tutela della libertà della cultura e della condivisione dei saperi – accompagnate da riflessioni acute e parole talmente belle che la nostra società così chiusa e gretta potrà capirle solo a distanza di anni. Quando finalmente ci sarà chiaro che questa condivisione non è un reato né tantomeno un atto criminale, bensì un gesto di profonda umanità, per Aaron purtroppo sarà troppo tardi. Per tutti noi invece non sarà mai troppo presto.

In un altro periodo storico e in un'altra cultura, Aaron Swartz sarebbe stato celebrato come un benefattore, e non perseguitato come un criminale. Che la sua memoria serva a noi tutti per non smettere mai di domandarci dove sono oggi i prometeo che cercano di liberare la conoscenza e le tecnologie sfidando le persecuzioni dell'olimpo, ovvero le condanne del potere che cerca di imporre le sue regole autoritarie a uomini e donne dallo spirito libero. E per continuare a inseguire questa insaziabile sete di conoscenza e di giustizia sociale – pratiche diffuse senza le quali la razza umana non avrebbe ancora imparato ad accendere un fuoco. Carlo Gubitosa giornalista e attivista