Testo originale: Why Aaron Died, dal blog di Taren Stinebrickner-Kauffman, 04/02/2013. Traduzione di Eusebia Parrotto.
Qualche giorno fa mi sono svegliata e ho trovato Aaron lì con me. Era seduto vicino al letto, sfoggiando il suo sorriso più sfacciato, e mi teneva la mano.
Per qualche minuto, ho assaporato una dolce incertezza: le ultime settimane erano forse state tutto un incubo, e Aaron stava ancora con me? Oppure stavo risvegliandomi da un sogno, e nel mondo reale Aaron era davvero morto?
Poi Aaron cercò di leggermi un libro, ma aveva problemi nel decifrare le frasi. Disse che stava dimenticando come si legge per mancanza di pratica. Divenne chiaro che si trattava di un sogno – il vero Aaron non avrebbe mai dimenticato come si legge. E ciò significava che tutto quel che ricordavo sul suo suicidio doveva essere vero nella vita reale.
Così gli ho chiesto perché. Perché l'hai fatto? Cosa ti è passato per la mente quando ti sei ucciso? Avrei fatto qualunque cosa per te. Qualsiasi cosa, se solo mi avessi detto di cosa avevi bisogno.
"Io sono un sogno", rispose, dopo una lunga pausa. "Non è mio compito dirti perché. Sono un sogno, non posso dirti nulla che non sai già".
Avvolta dalla tristezza, mi costrinsi a svegliarmi dall'incubo che mi avviluppava, solo per trovarmi di fronte all'incubo della vita reale. Non avrei mai avuto le risposte che desideravo avere. Ma ho delle risposte che non ha nessun altro. Ecco perché ho deciso di scrivere questo post.
Non credo che la morte di Aaron sia dovuta alla depressione.
Lo dico sapendo bene che molti altri non avrebbero compiuto la sua scelta in quelle stesse condizioni sotto pressione.
Lo dico senza comunque voler sottovalutare il suo dolore – né peraltro la sofferenza di chi è affetto da depressione.
Lo dico nonostante il fatto che all'inizio della nostra storia avevo letto e discusso con lui di quello scellerato post sul suicidio scritto anni prima – perciò non ero all'oscuro del fatto in passato aveva avuto dei problemi mentali.
Lo dico perché negli ultimi 20 mesi della sua vita, Aaron ha trascorso più tempo con me che con chiunque altro al mondo. Per gran parte degli ultimi 8 mesi della sua vita, abbiamo vissuto insieme, viaggiato tutti i giorni insieme e lavorato nello stesso ufficio – e non ho mai temuto che fosse depresso fino alle ultime 24 ore della sua vita.
Lo dico perché, dopo il suicidio, ho cercato di capire quel che è successo. Mi sono informata. Ho fatto ricerche sulla depressione clinica e sui disturbi connessi. Ne ho studiato i sintomi, e almeno fino alle ultime 24 ore della sua vita, Aaron non ne soffriva.
Per questo è arduo leggere in tanti articoli che “Aaron lottava contro la depressione” – come se il procedimento giudiziario fosse nient'altro che un fattore fra i tanti, come se, forse, lui si sarebbe comunque suicidato l'11 gennaio, pur in assenza di alcun procedimento.
La depressione è caratterizzata da un calo di energia e da inattività, abbandono e isolamento, scarsa autostima, problemi di concentrazione e difficoltà a ricordare i dettagli, incapacità di provare piacere nella vita quotidiana. Non tutte le persone depresse soffrono di problemi simili per tutto il tempo, ma questi sono i segnali evidenti. E infatti, Aaron in quel vecchio post sulla sua depressione aveva fatto riferimento a diversi sintomi analoghi.
Ma lasciate che vi racconti dell'Aaron che ho conosciuto – l'Aaron Swartz del 2011, del 2012 e dei primi giorni del 2013.
L'Aaron che conoscevo io era un tipo energico. Aveva fatto parecchia attività fisica per giorni fino a che non prese l'influenza, due settimane prima di morire. Qualche settimana prima, quando ero fuori città per il weekend, mi aveva sorpreso facendo un'escursione in montagna di un'interna giornata fuori New York. Quella sera tornò raggiante, descrivendo come si era inerpicato su una ripida roccia come “scorciatoia” sotto gli occhi di altri escursionisti (e così aveva perso il Kindle giù per un dirupo).
L'Aaron che conoscevo io era socievole e felice di stare insieme alle persone che amava, fino all'ultimo. Aveva progetti e ambizioni enormi. Il 9 gennaio, due giorni prima di morire, passò delle ore immerso in una conversazione con il nostro amico australiano Sam riguardo la nuova organizzazione che Aaron aveva appena cominciato a costruire. Sam gli chiese se avesse dei sostenitori e lui rispose che chiunque fosse abbastanza competente da potergli garantire sostegno, nei fatti, fosse già un suo sostenitore – la classica arroganza pessimista di Aaron, ma anche un richiamo al fatto di sapere che gli amici erano con lui. Sam gli diede una veloce panoramica della politica australiana; Aaron rimase sconcertato su quanto sarebbe stato facile “conquistare l'Australia”, ma concluse che, per un Paese di appena 20 milioni di abitanti, probabilmente non ne sarebbe valsa la pena.
L'autostima, inutile dirlo, non era certo un problema per Aaron.
L'Aaron che ho conosciuto non aveva problemi per concentrarsi o rammentare certi dettagli. La settimana prima di morire stava divorando tutta la letteratura scientifica che riusciva a trovare sulla dipendenza dalla droga e su efficaci interventi di recupero. Non, per essere chiari, perché avesse problemi di droga (non usava quasi mai neanche alcolici), bensì per un progetto su cui stava lavorando per Givewell, l'organizzazione di beneficenza da lui preferita. Mi riferiva con profondo godimento intellettuale le sue conversazioni con i massimi esperti del settore, gli interventi che si erano mostrati più promettenti per combattere l'alcolismo, le teorie che stava elaborando sui cambiamenti politici concretamente realizzabili. Discutemmo dei preconcetti culturali che permettono alla nostra società di considerare le sostanze chimiche in modo diverso da come trattiamo la morfina e l'eroina.
L'Aaron che conoscevo io aveva profonde capacità di godere della vita quotidiana. Aveva, naturalmente, problemi col cibo – nell'ambito dei normali sintomi associati alla sua colite ulcerosa. Ma non esitava a esultare quando trovava qualcosa di buono da mangiare – o qualsiasi cosa bella. Aveva un raffinato senso estetico. Poteva trarre la più profonda, la più autentica gioia per un muffin di mais perfetto, per un geniale costrutto narrativo trovato nella biografia di Lyndon B. Johnson di Robert Caro, per un font meraviglioso, più di chiunque altro abbia mai conosciuto.
E forse la cosa più incredibile è stata la sua capacità di mantenere tutte queste qualità per quasi due anni, a fronte dell'inarrestabile incubo che ne stava distruggendo la vita.
Aaron era umano: non era sempre felice, e sono la prima a dire che a volte diventava davvero pesante vivere con lui. Poteva rivelarsi umorale e introverso. Era spesso vittima di forti dolori per via dei problemi di stomaco. Era esigente con se stesso (così come con gli altri). E naturalmente, in fondo, era anche autodistruttivo.
Ma voglio ripeterlo ancora una volta: la morte di Aaron non è stata causata dalla depressione. Questo è un punto importante, perché molti ritengono che sia così, e che la risposta giusta alla sua morte sia una cura migliore per la depressione, una migliore capacità di percezione delle tendenze suicide. Questo Paese ha assoluto bisogno di queste cose – Aaron sarebbe stato il primo ad essere d'accordo – ma ne abbiamo bisogno perché questa è la cosa giusta da fare, e non per quanto successo ad Aaron.
Non so spiegare con precisione perché Aaron si è ucciso. Non so dire esattamente cosa gli passava per la testa. Se avessi saputo tutto ciò l'11 gennaio, o se avessi almeno saputo le cose giuste da chiedergli, forse sarei riuscita a fermarlo. Da quell'11 gennaio, ci ripenso a ogni ora del giorno e della notte.
Come diceva però l'Aaron del sogno, posso solo sapere ciò che già so. E con la conoscenza che ho – per averlo guardato, ascoltato, per le cose che gli ho chiesto, accanto a lui, lì nel letto, mentre mangiavamo, parlando nella metropolitana, dalle nostre scrivanie adiacenti nell'ufficio in cui lavoravamo su vari progetti – dalle nostre vite insieme, penso che la morte di Aaron non sia stata causata dalla depressione.
Credo che la morte di Aaron sia stata causata dall'esaurimento, dalla paura, dall'insicurezza. Credo che la sua morte sia conseguenza diretta del procedimento giudiziario che lo perseguitava già da due anni (dov'è andato a finire il diritto costituzionale a processi rapidi?), e che ne aveva prosciugato tutte le risorse finanziarie. Credo che la morte di Aaron sia dovuta a un sistema penale che dà priorità al potere rispetto alla pietà, alla vendetta sulla giustizia; un sistema che punisce persone innocenti per il solo fatto che cercano di dimostrare la propria innocenza anziché accettare patteggiamenti che li segnerebbero per sempre come criminali; un sistema in cui gli incentivi e le strutture di potere si schierano con il pubblico ministero per distruggere la vita di un innovatore come Aaron, pur di perseguire le proprie ambizioni.
Chiedetevi questo: se il 10 gennaio, Steve Heymann e Carmen Ortiz avessero chiamato dalla Procura del Massachusetts l'avvocato di Aaron per dirgli di essersi resi conto dell'abbaglio preso e di essere pronti a lasciar cadere tutte le accuse – o almeno che sarebbero stati pronti a offrire un accordo ragionevole che non avrebbe segnato Aaron come un criminale per il resto della vita – Aaron si sarebbe forse ucciso l'11 gennaio?
La risposta è: assolutamente no.