Testo originale: Processing the loss of Aaron Swartz, dal blog di danah boyd, 13/01/2013. Traduzione di Cristian Consonni.
Le ultime 24 ore sono state delle montagne russe a livello emotivo. Ieri mattina mi sono svegliata e ho scoperto che un amico – Aaron Swartz – si era tolto la vita. Il mio feed di Twitter si è riempito di espressioni di cordoglio, shock, tristezza, rabbia, vendetta. Ho passato l'intera giornata a parlare con tanti amici, tutti in varie fasi di smarrimento. Ne ho seguito gli stati d'animo man mano che ne scrivevano senza filtri sui rispettivi blog, pratica che continuiamo a seguire da oltre un decennio.
Eppure non riuscivo ancora a trovare le parole per esprimere le mie sensazioni. Quando ieri ho detto su Twitter che ero arrabbiata, qualche amico ben intenzionato e degli psicologi che non conoscevano Aaron mi hanno scritto che non potevo considerarmi responsabile della depressione di qualcun altro. Mi è venuta voglia di urlare. Invece ho deciso di scrivere questo post. È grezzo e imperfetto, ma descrive quello che sto provando ora.
Nel bene e nel male, nel corso degli anni ho conosciuto diverse persone che si sono suicidate. Ne ho visti alcuni affetti da una depressione profonda che poi hanno fatto quella scelta. Anch'io ho avuto a che fare con i miei demoni, per cui hanno tutta la mia comprensione. Parte del motivo per cui la morte di Aaron mi ha colpito come una sassata è che stavolta la situazione era diversa.
Credo indubbiamente che la depressione c'entri qualcosa. Adoravo Aaron perché era un vortice di emozioni – un bastardo scontroso e un cervellone maniacale. Le nostre conversazioni avevano un qualcosa di etereo e quando discutevamo mi spingeva sempre a pensare ai problemi più complessi. Aveva una portata intellettuale che mi lasciava sbalordita e la curiosità di un gattino. Quando però si sentiva distruttivo, usava la sua acuta comprensione degli altri per metterne a nudo i punti deboli e pungolarli dove faceva più male. Specialmente con le persone che amava di più. Vedeva se stesso come un sociologo dilettante perché innamorato dell'idea di capire come funziona la gente, e così ci confrontavamo sul bisogno di rigore e di un'istruzione formale.
Conoscevo Aaron da nove anni, lo adoravo alla follia e al contempo lo trovavo maledettamente frustrante. Negli ultimi anni i nostri contatti si erano fatti più sporadici perché degli alti e bassi mi piacevano i momenti alti, ma facevo veramente fatica con i bassi. Il suo arresto però mi aveva davvero preoccupata. Decidemmo di non parlare mai del caso in sé, ma nel bel mezzo dei nostri scambi d'idee scherzavamo, per sdrammatizzare la situazione, a proposito del fatto che in carcere finalmente avrebbe prendere la laurea. Gli promisi che avrei curato un piano formativo per lui, mettendo insieme le migliori borse di studio, e che gli avrei mandato un articolo stampato da JSTOR ogni giorno. Sapevo che la cosa gli pesava, ma sapevo anche che era un attivista appassionato ed ero convinta che ce l'avrebbe fatta, che sarebbe uscito da questo periodo buio.
Quello che mi ha fatto andare su tutte le furie ieri è stata la stessa cosa che mi è rimasta sullo stomaco negli ultimi due anni. Quando il governo federale ha deciso di incriminarlo – con il MIT rimasto vigliaccamente a guardare – non è stato trattato come qualcuno che poteva avere fatto o meno qualcosa di stupido. Era diventato un esempio. E il motivo per cui volevano dargli una lezione non era perché volevano che la imparasse, bensì perché ne avevano fatto una questione di principio, per dimostrare alla comunità hacker di Cambridge che li tenevano in pugno. Era una minaccia che non aveva nulla a che fare con la giustizia e tutto a che fare con la lotta per il potere all'interno del sistema. Negli ultimi anni, gli hacker hanno sfidato lo status quo e messo in discussione la legittimità di decine di decisioni politiche. I loro mezzi possono essere criticabili, ma le intenzioni sono state oneste. Il nocciolo di una democrazia che funziona è quello di mettere sempre in discussione gli usi e gli abusi del potere in modo da prevenire l'insorgere della tirannia. In anni recenti abbiamo visto hacker demonizzati come anti-democratici pur se molti di loro si considerano come combattenti per la libertà della nostra epoca. E le autorità hanno usato Aaron, dipingendo il suo progetto sull'informazione libera come una storia di feroci hacker i cui attacchi terroristi sono volti a distruggere la democrazia.
Le persone ragionevoli possono essere in disaccordo sulle tattiche e sul dove e sul quando un particolare approccio supera la giusta misura. Al pari di Lessig, spesso anch'io ero in disaccordo con Aaron rispetto alle sue specifiche strategie su come liberare l'informazione mondiale, anche se non avrei mai dissentito sull'obiettivo finale. E una delle ragioni per cui ieri così tanti hacker e geek hanno protestato contro il sistema è dovuta al fatto che tanti pezzi grossi, persone preposte a questo compito e nella posizione giusta per farlo, sono state incapaci di vedere oltre i singoli atti di Aaron e di comprenderne le intenzioni e l'attivismo di fondo. Così sono andate sprecate tante risorse pubbliche per controllare e armonizzare la resistenza dei geek, per sopprimere ogni ribellione e punire tutti coloro che sarebbero riusciti a beccare. Ma la maggior parte dei geek opera nelle zone grigie, non è facile incastrarli e processarli per qualche reato. È in questo contesto che la bravata di Aaron ha dato agli agenti federali materiale sufficiente per portarlo davanti a un giudice e additarlo come esempio. Hanno usato il loro potere per farlo tacere e condannarlo pubblicamente prima ancora che iniziasse il processo.
Ieri si è parlato tantissimo del suo caso giudiziario, incluso un formidabile resoconto del perito a sua difesa. In molti si sono chiesti perché qualcuno non si è fatto avanti prima. Posso spiegare solo il mio ragionamento. Ero troppo spaventata per espormi pubblicamente nel timore che le mie parole avrebbero potuto essere usate contro di lui. Ed ero troppo spaventata di rimanere vittima della caccia alle streghe che ho visto concretizzarsi negli ultimi tre anni. Perché tutto ciò non ha nulla a che fare con la giustizia o la sicurezza nazionale. È legata al potere. Ed è questa, all'osso, la ragione per cui l'amministrazione Obama per me è stata una cocente delusione. Nell'ultimo paio d'anni ho discusso un numero ridicolo di volte con gente del governo su come vengono trattati i geek e sulla loro incapacità di comprendere le motivazioni degli hacker, eppure non sono mai riuscita a capire come avrei potuto cambiare le cose in tal senso. Questa cosa mi ha sempre causato una grossa frustrazione, anche in quegli episodi, come la proteste contro il SOPA/PIPA, in cui i geek hanno dimostrato di potersi imporre.
Così, eccoci qui oggi, con il mondo orfano del bambino prodigio capace dimettere in mutande chiunque lo conoscesse. È diventato un giocattolo nello spettacolo inscenato dal governo per dimostrare di essere potente. Lo hanno perseguitato e intimidito, hanno giocato sulle sue debolezze per spezzarlo. E ce l'hanno fatta. Tutto in nome della giustizia. Tutto ciò senza che fosse nemmeno sottoposto a processo in una società che si fa orgoglio dell'innocente fino a prova contraria. È stata forse la depressione un fattore chiave di quanto successo venerdì? Sicuramente. Ma non è tutta qui la storia. Ed è questo che me la fa diventare difficile da digerire.
Gira molta e giustificabile indignazione là fuori. In molti vogliono la testa dei funzionari che hanno contribuito a creare il contesto in cui Aaron si è tolto la vita. Ne capisco perfettamente le motivazioni. Ma ho anche paura che Aaron verrà trasformato in un martire, l'astrazione di un geek attivista distrutto dallo Stato. Perché era molto più di questo – adorabile e imperfetto, appassionato e determinato, brillante e stupido da far venir rabbia. Sarà facile ritrovarsi a manifestare per piangere vendetta in suo nome. Ma non se ne guadagna molto dal reificare il gioco del noi contro loro che ci ha portati fin qui. Dev'esserci un'altra via d'uscita.
Quello che spero veramente venga fuori da quest'orribile tragedia è una seria riflessione a livello di comunità e l'attenta verifica dei valori condivisi. Molti dei punti chiave per cui si è battuto Aaron – la liberazione della conoscenza, l'accesso aperto all'informazione e l'uso del codice per rendere migliore il mondo – sono valori al cuore della comunità geek. Eppure, come ben illustra Biella Coleman nel suo libro Coding Freedom, questa comunità non è certo priva di difetti. Lo stesso vale per Aaron. Ha fatto le cose a modo suo perché era convinto che la passione, la volontà e l'azione fossero più forti di qualsiasi cosa. E la sua testardaggine lo ha reso vulnerabile. Se vogliamo raggiungere i valori e gli obiettivi che sono al cuore della comunità geek, credo che non riusciremo mai a cambiare le cose creando nuovi martiri che qualcuno può usare come esempi della guerra culturale. Mentre piangiamo collettivamente la morte di Aaron e canalizziamo la nostra rabbia per cercare di cambiare le cose, credo che dovremmo cercare un approccio al cambiamento che non porti persone brillanti a essere incastrate e tormentate dal potere in modo così esemplare.