Aaron's Laws: legge e giustizia nell'era digitale

Stralci dell'intervento di Lawrence Lessig alla Harvard Law School, 19/02/2013. Traduzione di Francesco Pandini.

Questo mio intervento doveva rappresentare un passo avanti nel mio pluriennale impegno contro la corruzione, ma quando cinque settimane e quattro giorni fa Aaron si è tolto la vita, ho capito che il tumulto interiore causato da quell'esperienza mi avrebbe distolto da quel tema e ho provato a rimandare del tutto quest'intervento. Poi ho invece chiesto di lasciarmi parlare di Aaron. Il discorso di questa sera, dapprima cancellato, si è così evoluto in qualcosa che chiameremo Aaron's Law (la legge di Aaron).

Devo però sottolineare subito quanto sia inappropriata questa discussione. Perché questo genere di discorsi nasce per essere accademico. Ma non c'è nulla di accademico nel mio stretto legame con un tema simile. Non posso promettere quel distacco così necessario al contributo che noi, in quanto accademici, siamo tenuti a dare. Non posso nemmeno garantire competenza, dato che l'argomento stesso mi spingerà verso ambiti che non fanno parte delle mie competenze. Posso solo affrontare il tema di questa sera non da accademico, bensì da cittadino e da amico che considera del tutto inappropriato trovarsi qui cinque settimane e quattro giorni dopo che Aaron si è tolto la vita.

Aaron Swartz era un amico. Era un collega. Era un co-cospiratore. Ha vissuto per 26 anni. Per metà di quei 26 anni ha vissuto in pubblico. Era un prodigio. […]

Per 12 di quegli anni, ho avuto l'onore di conoscerlo. All'inizio lo incontravo alle conferenze. I suoi genitori lo accompagnavano, a 12 o 13 anni, a seguire questi convegni sulla tecnologia. Gli ho proposto di occuparsi dell'architettura tecnica di Creative Commons. L'ho visto crescere. […]

[Nel blog che iniziò a curare dal primo giorno alla Stanford University, si presentava così:] «Rifletto molto sulle cose e mi aspetto che gli altri facciano lo stesso. Lavoro per le idee e imparo dalle persone. Non amo escludere la gente. Sono un perfezionista, ma farò in modo che ciò non ritardi l'uscita dei post. A parte l'istruzione e l'intrattenimento, non ho intenzione di sprecare tempo in cose che non avranno impatto. Cerco di fare amicizia con chiunque, ma odio che non mi si prenda sul serio. Non serbo rancore, non è produttivo, ma imparo dall'esperienza. E voglio rendere migliore il mondo.» Ecco chi era quel ragazzo. […]

Un altro post recitava: «Stanford: Giorno 58: Kat e Vicky vogliono sapere perché faccio colazione da solo leggendo un libro, anziché chiacchierare con loro. Gli spiego che, per quanto siano carine e interessanti, il libro è scritto da un esperto assai preparato ed è zeppo di fatti. Mi spiegano che starsene seduti soli è un grave errore dal punto di vista sociale e non sentire il bisogno di parlare con gli altri è del tutto anormale. Dopotutto, posso chiacchierare con qualcuno se ne ho voglia, ma sono incapaci di stare sole. Mi fanno capire con cautela che risulto offensivo e che farei bene a stare attento se non voglio alienarmi le simpatie delle poche persone disposte ancora a parlare con me».

Il mio post preferito, due anni dopo: «Ho deciso di smettere di provare imbarazzo. Dico addio a tutto: la sensazione crescente del momento che si avvicina, rendersi conto che ci siamo, quell’afflusso di sangue che ti arrossa le guance, quel fugace ma fortissimo desiderio di saltar fuori dalla tua pelle e poi, alla fine, quel sorrisone forzato che cerca di nascondere tutto. Certo, per un po’ è stato divertente, ma credo che quella sensazione abbia smesso di essermi utile. È ora che l’imbarazzo sparisca».

Ecco chi era Aaron. Un ragazzo. Un uomo. Un uomo tutto d'un pezzo. Ha toccato decine di migliaia di persone, ne ha ispirate milioni, e nel mio tempo a disposizione stasera, vorrei dirvi in che modo penso Aaron meriti di essere celebrato. […]

Hacking. Sebbene dirlo non sia popolare, anzi inappropriato, e particolarmente in un istituto di giurisprudenza come questo, dobbiamo celebrare quest'attività. Va fatto poiché come gli avvocati, forse meglio degli avvocati, hacking significa usare la conoscenza tecnica per far crescere il bene comune. Usare conoscenze tecniche per migliorare i beni comuni. C'è il cracking, ci sono le violazione dei diritti individuali o fare qualcosa che danneggia gli altri – cose che non andrebbero celebrate neppure quando commesse in nome della legge o tramite il codice informatico. L'hacking, però, cioè sfruttare la conoscenza tecnica per far crescere il bene comune, è qualcosa che gli avvocati dovrebbero celebrare tanto quanto gli hacker.

E dunque Aaron era un hacker. Ma non solo. Era un attivista pro Internet. Ma non solo un attivista a sostegno di Internet. Anzi, la parte più importante della vita di Aaron è quella che se n'è andata davvero troppo in fretta – l'ultimo tratto, quando aveva spostato l'attenzione dall'impegno per ampliare la libertà nell'ambito del copyright allo sviluppo della libertà e della giustizia sociale in senso lato.

E ho condiviso con lui questo cambiamento. Nel giugno del 2007 anch'io annunciai di essere prossimo ad abbandonare il mio impegno riguardo Internet e il diritto d'autore per lavorare in quest'area della corruzione. Non posso sapere quando questo passaggio abbia preso corpo nel suo caso, ma so bene quando ha avuto senso per me. Tutto risale al 2006. Aaron aveva partecipato alla 23esima edizione della conferenza C3 a Berlino, io mi trovavo con la famiglia all'American Academy e lui venne a trovarmi. Parlammo a lungo, e nel corso di quella conversazione mi chiese quali progressi prevedevo nell'ambito in cui stavo lavorando, la riforma del copyright, la riforma della regolamentazione di Internet, vista l'esistenza, come diceva lui, di tutta questa “corruzione” in campo politico. Cercai di sviarlo un attimo. «Guarda, non è il mio campo». E lui replicò, «Capisco. Come accademico, intendi?». Risposi: «Sì, come accademico, non è il mio campo». Allora lui fece: «E come cittadino, è il tuo campo?».

Era questa la sua forza. Una forza straordinaria, non autorizzata. Come i migliori insegnanti, insegnava ponendo domande. Come per i leader più efficaci, le sue domande tracciavano un percorso, il suo percorso. Ti mettevano alle strette, se volevi essere come lui. Ti obbligavano a pensare a chi eri veramente, a cosa credevi sul serio e decidere: sei davvero la persona che pensi di essere? Così, quando la gente mi definisce il mentore di Aaron Swartz, guarda le cose al contrario. Era Aaron il mio mentore. Mi ha insegnato, sollecitato, guidato. È stato lui a farmi arrivare dove sono ora. […]

La disobbedienza civile vanta una tradizione significativa. David Byrne ha scritto un pezzo su Aaron e la disobbedienza civile, in cui riflette sugli esempi di disobbedienza civile della storia. È soprattutto in questo contesto che si pensa a lui come il maggior protagonista della disobbedienza civile nel XX secolo.

Ma cos'è poi la disobbedienza civile? Si tratta di compiere un atto pubblico, pronti ad accettare la punizione per la propria azione perché si è in grado di sostenerla. Sul copyright però le cose stanno diversamente. La disobbedienza nel campo del diritto d'autore non è un atto pubblico. Non se ne può accettare la punizione perché non possiamo farvi fronte.

Martin Luther King, protagonista della disobbedienza civile, venne arrestato per numerose infrazioni. Fu accusato di appena due reati e assolto da una giuria di soli bianchi poiché le basi per le accuse erano vergognose. Venne incarcerato, dovette trascorrere molti giorni in galera. Confrontatelo con Aaron, accusato di 13 reati, con un giudice federale che aveva il diritto di condannarlo a 35 anni di galera. […]

Ma la domanda è: cosa si dovrebbe fare? Subito dopo la sua morte, Zoe Lofgren – che per Aaron incarnava l'idea che forse c'era qualcuno al Congresso capace di comprendere l'idiozia del COICA – ha scritto dell'intenzione di presentare qualcosa che avrebbe voluto chiamare Aaron's Law. Ma non al Congresso. Ha presentato la proposta prima su Reddit, chiedendo agli utenti di commentarla; sono arrivati migliaia di commenti, e così lei ha stilato una nuova proposta di legge alla luce di quei commenti e ora l'ha presentata al Congresso. Secondo la EFF [Electronic Frontier Foundation], ogni disegno di legge in materia deve soddisfare tre criteri cruciali. Non va criminalizzata la violazione di accordi privati, si deve consentire a chi ha accesso all'informazione di farlo in modo innovativo e le pene devono essere proporzionate al reato commesso (via computer). La EFF ritiene che questa proposta risponda ai primi due requisiti.

È un'ottima proposta di legge. La Aaron's Law è fantastica. Eppure non bisogna farsi illusioni. La Legge di Aaron è fondamentalmente incompleta. Aaron era un hacker, ma non solo. Era un attivista pro Internet, ma non solo. Era un attivista politico, ma non solo questo. Era un cittadino che sentiva l'obbligo morale di fare ciò che credeva giusto. E se era colpevole di qualcosa, è perché ha agito in base a quel che riteneva giusto. E noi dobbiamo comportarci rispettando quell'atto di cittadinanza.

Aaron era un supertaster, qualcuno ultra sensibile a ogni tipo di cibo. Era dura andare a cena insieme, non poteva mangiare quasi nulla poiché ogni sapore era troppo intenso per il suo palato. Mangiava solo le cose più insipide. Ma era anche un supertaster riguardo all'ingiustizia. Semplicemente non poteva accettare l'indifferenza che vedeva intorno a sé rispetto all'ingiustizia, individuale e istituzionale. E non è certo mancata l'indifferenza su questo caso, nelle istituzioni e negli individui all'interno delle istituzioni, singoli che non hanno fatto nulla per portare l'intero sistema a riconoscere la follia di quanto stava avvenendo. A dire il vero, non c'è stata solo indifferenza. Sono stati in parecchi a darsi da fare, e non poco. John Palfrey, Jon Zittrain, Hal Abelson, Joi Ito, si sono impegnati molto per fare in modo che il sistema riconoscesse questa follia, ma nessuno di noi è riuscito a far abbastanza contro quell'indifferenza. E Aaron l'ha affrontata con indubbia serietà, sagacia e piena semplicità, chiedendo quale ne fosse il motivo. «È mai possibile che possa subire tutto questo per qualche script e qualche infrazione alla legge?». E ci ha chiesto, come cittadini, di spiegare perché e come potessimo giustificare tutto ciò.

La sua ultima legge: tutti noi dobbiamo cercare il modo di ispirare in ognuno di noi la capacità di riconoscere ovunque un supertaster. La capacità di riconoscere che, quando le istituzioni si avventurano in quest'area, abbiamo l'obbligo, come cittadini, di rifiutarle. Di dire “basta”.

Dopo la morte di Aaron, un amico comune che lo conosceva da tanto quanto me, un regista tedesco, mi ha mandato una mail in cui diceva: «Aaron è una vittima dello spirito tipicamente fascista diffusosi in America nel decennio scorso. Die Andersdenkenden saranno distrutti senza pietà. Come se la pietà fosse in qualche modo un segno di debolezza». Die Andersdenkenden si può tradurre come “chi la pensa in modo diverso”. Ora, uno spot della Apple sarebbe stata l'ultima cosa al mondo con cui Aaron avrebbe voluto essere associato. Non perché odiasse i prodotti Apple – era assolutamente un Apple nerd – bensì perché sempre di più quell'azienda sembra non rappresentare nessuno dei valori che Aaron celebrava o per cui combatteva. Ma non potrebbe non riconoscere l'amara ironia nel fatto che viviamo in un'epoca in cui l'unico luogo in cui possiamo celebrare il think different, chi pensa in modo differente, è lo spot televisivo di un'azienda la cui immagine di Internet è me.com.

Perché soltanto in quel caso? Perché lasciamo che le cose restino così? Se questa è l'America, dobbiamo tutelare quel diritto, il diritto di ciascuno di noi a pensarla diversamente, il diritto al dissenso. Dobbiamo proteggerlo qui e ora, dobbiamo batterci per affermarlo, inchiodando alle loro responsabilità coloro che hanno distrutto l'anima di questo ragazzo e chi ha difeso un simile comportamento definendolo “appropriato”.

Dimenticate think different. Piuttosto, think Aaron. Pensiamo a quel che gli è stato inflitto e pensiamo alle leggi da far approvare per riparare al malfatto. […]

Io insegno giurisprudenza, perché credo che la legge abbia un enorme potere per fare del bene, e che gli avvocati, specialmente quelli americani, preparati come lo siamo noi, abbiano un gran potenziale per fare del bene. Ma ciò richiede una buona dose di coraggio, cosa che la nostra cultura legale cerca di cancellare del tutto. Il coraggio di alzare la testa e dire: “No. Questo è sbagliato, completamente sbagliato”. Ora, penso esistano i modi per cui studenti di legge e avvocati possano trovare la forza di dirlo. Uno è raccontare le storie di chi lo ha fatto e di chi vuole farlo. Un altro è incoraggiare e proteggere chi lo fa. Credo però si tratti di un problema più ampio. È un problema generale di moralità. Qui al Safra Center For Ethics, questa è una caratteristica o un bug di quella cosa che chiamiamo corruzione istituzionale, quando si diventa complici di un sistema che si disinteressa di perseguire i propri obiettivi per dedicarsi invece a qualcos'altro, in genere al guadagno personale. E così, da qui all'età della pensione, avrete un milione di occasioni per decidere di fare la cosa giusta o piuttosto quella facile. E se facciamo troppo spesso la cosa giusta, potremmo finire per andare in pensione con largo anticipo. Voglio dire, dobbiamo scegliere le battaglie che vogliamo portare avanti. Bisogna decidere: «Chi voglio essere?» Sapete, per il resto della mia vita, sarà il sorrisetto interrogativo di questo ragazzo che mi guarda e dice: «Sì, come accademico, ma come cittadino?», a costringermi a riflettere bene su ogni cosa che faccio. Siamo pagati bene per permetterci di poter fare ciò che è giusto. Abbiamo il dovere di farlo. Questa è l'unica professione che possa vantarsi di avere un tale obiettivo cruciale... E dunque sì, potete e dovete perseguirlo, lo spero.

Perché mai passo tutto il mio tempo a lavorare su questi problemi (corruzione, finanziamento delle campagne elettorali)? La storia che segue l'ho già raccontata, consentitemi però di farlo un'ultima volta, ne parlo anche nel mio libro.

Stavo tenendo un intervento a Dartmouth. A un certo punto una donna salta su e fa: «Professore, mi ha convinto. Mi ha convinto davvero. Non c'è speranza. Non c'è nulla che possiamo fare». E, come già descritto nel libro, mentre lo diceva, nella mia mente prendeva corpo l'immagine di mio figlio, che all'epoca aveva circa 6 anni. E pensavo a cosa avrei fatto se un medico fosse venuto a dirmi: «Suo figlio ha un cancro al cervello allo stadio terminale, e non c'è nulla che lei possa fare.»

Davvero non avrei fatto nulla? Ovviamente no. Faremmo di tutto. Faremmo qualsiasi cosa necessaria. Questo vuol dire amore, giusto? Significa impegnarsi, sforzarsi al massimo pur contro ogni probabilità di successo. E sapete, il mio pensiero successivo fu che anche noi progressisti amiamo il nostro Paese [risate del pubblico]. E così anche quest'osservazione sull'impossibilità della sfida che abbiamo davanti è insignificante, dato che amiamo qualcuno o qualcosa. E “amare” significa che agiamo senza tener conto di quanto possa rivelarsi impossibile la situazione. Ed è questa l'emozione che dobbiamo coltivare oggi. Per me, tutto ciò è strettamente connesso all'amore, non solo per il nostro Paese… ma anche verso i più giovani, i miei tre figli per esempio, e stiamo per lasciar loro un mondo infinitamente più malmesso di quello che ho ereditato dai miei genitori. E non c'è speranza di ripararlo, finché non risolviamo questo problema. E dunque, sì, non c'è speranza. Ma è l'unica battaglia che abbiamo davanti. L'unica battaglia che ci rimane.