Andrea Zanni, ripreso dal suo blog, aggiornamento del 06/01/2014.
L’open access è un movimento che vuole dare accesso aperto alla conoscenza, e nello specifico alla letteratura scientifica. Sono tanti i nomi che si danno a questi “movimenti dell’open” (open knowledge, open science, open data), e in generale tutti vogliono più apertura e trasparenza, declinate in ambiti specifici (ad esempio pubbliche amministrazioni, università, dati scientifici). L’open access si focalizza su un sistema molto particolare, che è appunto il mondo della letteratura scientifica e accademica: un mondo fatto prevalentemente di ricercatori, che studiano, ricercano e pubblicano i propri risultati in articoli scientifici, in riviste del proprio settore.
Le varie riviste hanno reputazioni molto diverse: ci sono quelle autorevoli e quelle meno (pubblicare su Nature è diverso che pubblicare su Focus, ecco). Questo perché ogni articolo, nel mondo scientifico e accademico, deve passare attraverso il filtro della peer review, la revisione dei propri pari: (teoricamente) gli scienziati si valutano a vicenda, controllano i risultati, fanno le pulci alle metodologie. Ciò che passa rimane, si aggiunge al corpus scientifico, crea il trampolino da cui poi partono gli altri. Insomma, si costruiscono i giganti su cui ci arrampichiamo noi nani.
Qual è il punto? Perché l’open access? Cosa non va?
Be’, il punto è noioso. Il punto è che il nostro modo attuale di pubblicare la ricerca ha molti problemi, soprattutto economici. Le riviste sono in mano a pochissimi editori, che tengono i prezzi alti con altissimi margini di profitto. A poter accedere agli articoli sono dunque gli studenti/dottorandi/ricercatori delle università (più o meno ricche), perché sono le università, tramite le loro biblioteche, a comprare gli abbonamenti a quelle riviste. Se sei fuori dall’università, per un singolo articolo (un PDF di 20 pagine che potrebbe anche rivelarsi non utile alla tua ricerca) puoi pagare anche 30 euro (a PDF) – (rileggi, 30 euro a PDF).
Sono decenni che si tagliano i fondi alle biblioteche mentre sono decenni che il prezzo delle riviste continua ad aumentare. La questione è davvero seria, perché alcune biblioteche (parliamo anche di Harvard, non dell’Università di Camerino) dicono che non riusciranno per molto a garantire questi abbonamenti (che costano di centinaia di migliaia di euro), quindi i loro studenti non avranno accesso alla ricerca scientifica prodotta nel mondo, quindi non riusciranno a lavorare e fare ricerca loro stessi. Il nano senza gigante non sa dove arrampicarsi e non vede nulla. Questa situazione va avanti da anni e tutti sono concordi nell’affermare che il problema esiste davvero.
Cosa propone allora l’open access?
L’open access vuole essere la soluzione a questo problema, e propone una rivoluzione sostanziale con due strategie principali:
– pubblicare i propri articoli e risultati in appositi archivi aperti: questa viene chiamata via verde;
– creare apposite riviste peer reviewed ad accesso aperto: questa viene chiamata via d’oro.
Gli archivi dove pubblicare i propri articoli e risultati possono essere istituzionali (cioè facenti capo ad un’istituzione, come un’università) o tematici (afferenti a un determinato settore, come per esempio arXiv lo è per la fisica). Le riviste open access invece seguono il sistema tradizionale di pubblicazione e revisione fra pari, solo che poi rilasciano i loro articoli gratuitamente, per tutti. Cioè invece che pubblicare e far leggere i propri articoli soltanto a studenti di un’università che ha pagato l’abbonamento, sono semplici siti web che permettono a chiunque di leggere e scaricare il PDF.
Fare una rivista costa, ma ci sono modelli di business diversi che si stanno affermando, e quindi non è necessario far pagare al lettore (che è quello che succede con il modello tradizionale: in Italia, gli abbonamenti vengono pagati dalle biblioteche, cioè dalle Università, cioè con le tasse).
Queste strategie puntano a ribaltare il sistema corrente, assumendo implicitamente un postulato fondamentale: la letteratura scientifica (cioè la ricerca, cioè la scienza, cioè la conoscenza) è un commons, un bene comune. Non puoi mettere dei paletti alla conoscenza, l’informazione (soprattutto quella accademica e scientifica, filtrata e valutata, pagata coi soldi pubblici) deve essere libera, perché se è libera è meglio, per tutti.
Ed essendo la conoscenza libera è giusto che venga trattata in maniera diversa, perché questa è una “economia dell’abbondanza”, non della scarsità: è importante quindi che i modelli economici siano diversi, perché nessuno si sognerebbe di trattare allo stesso modo risorse diverse come l’educazione e il petrolio. Che è invece quello che stiamo facendo.
Il sistema è malato in vari punti e a vari livelli (economico, etico, sociale), la questione è complessa, davvero c’è una letteratura sterminata, là fuori, su questo. Ci sono ottime ragioni per tentare di cambiare il sistema corrente. E ce la possiamo fare.
Davvero? E perché?
Perché quello della letteratura scientifica è un settore particolare. Perché, riconoscendo che la scienza/conoscenza è di tutti, siamo d’accordo sui valori: e allora è, solo, un discorso di modelli economici. Non è moltissimo, ma è più di quanto sembri.
E c’è più di un punto fondamentale:
gli “attori economici” della “filiera produttiva” della ricerca sono sempre gli stessi, e cioè i ricercatori:
sono i ricercatori che scrivono gli articoli, che fanno ricerca. E’ la loro funzione e sono pagati dall’università (cioè dalle tasse, cioè da noi)
sono i ricercatori che si fanno peer review a vicenda, cioè valutano e filtrano la ricerca scientifica degli altri, e lo fanno gratis
sono i ricercatori l’utente finale della ricerca: sono loro a leggerla e studiarla, quindi loro a comprarla (con i soldi delle biblioteche, cioè dell’università, cioè delle tasse, cioè da noi).
I ricercatori, dunque, sono i produttori, i revisori e gli utenti finali della ricerca scientifica.
In sostanza, la ricerca viene pagata due volte: a monte (pagando gli stipendi ai ricercatori), e a valle (pagando le riviste su cui i ricercatori pubblicano). Ah, i ricercatori spesso devono pagare per dover pubblicare (anche migliaia di euro ad articolo). E danno via tutti i loro diritti (alle case editrici). E non ci guadagnano un centesimo.
E le case editrici? Le case editrici sono un intermediario (più o meno importante): loro fondano le riviste, le organizzano e coordinano la peer review, impaginano, distribuiscono, vendono. Ma non producono né revisionano. Non ne ho parlato qui sopra perché nel processo produttivo non ci sono: il loro lavoro di coordinamento è importantissimo, ma non giustifica i loro enormi profitti (che arrivano al 40% di margini di guadagno). Senza i ricercatori sono meno che niente.
Scusa, ma perché i ricercatori stanno al gioco?
Intanto perché è lo status quo, ci sono abituati, è così da tempo. Poi perché i ricercatori sanno poco e nulla di quanto paga la loro biblioteca per avere accesso alle riviste: questo è anche un problema dei bibliotecari, e di comunicazione. Poi c’è quella cosa del publish or perish: devono pubblicare o morire, ne va della loro carriera accademica, le cose funzionano così. Il ricercatore deve fare ricerca e pubblicare il più possibile, nelle riviste più prestigiose, che ovviamente sono tutte ad accesso chiuso, araldi del sistema tradizionale. Il cane si morde la coda.
Perché a loro, davvero, non interessa farci i soldi. A loro interessa far “carriera”, che significa avere borse di ricerca, pagare le bollette, avere finanziamenti per un altro anno di ricerca, magari diventare professori. E’ questa la reputazione accademica, la vera valuta all’interno del mondo accademico.
Ricapitolando: per far carriera accademica bisogna far vedere che si vale, cioè bisogna pubblicare tanto e bene, su riviste importanti. Le riviste importanti sono tutte delle case editrici di cui abbiamo parlato. È il publish or perish, pubblicare o morire. Il sistema attuale riesce così a far leva sui giovani ricercatori, quelli che hanno più bisogno di reputazione: anche chi vorrebbe pubblicare in open access a volte è costretto a scegliere.
Non ci credo
Lo so, non ci si crede. E non credete a me: fatevi un giro qui, andate su Wikipedia (quella inglese, o quella in italiano). E nella sezione finale dell’ebook, trovate un utile elenco di risorse e libri di in tema.