Codice libero

Excerpts from Sam Williams, Codice Libero, 2003, Apogeo.

18-25

È successo raramente nella storia, ma è successo, che in un momento in cui sembrava che le regole del gioco fossero immutabili, che i vincitori fossero imbattibili e i perdenti senza alcuna possibilità di riscatto, un uomo solo, assolutamente privo di potere, ricchezze, fama, bellezza, amicizie, un uomo qualunque della specie innumerevole dei perdenti, riuscisse a sovvertire le regole del gioco e a far saltare il banco. La storia raccontata in questo libro è la storia di uno di quegli eventi rari ed è la storia di un uomo eccezionale che nasce perdente e diventa vincente, che non è bello ma affascinante, che non è simpatico ma è adorato come un dio; non ha amicizie vere ma conta migliaia di ammiratori; mette i lunghi capelli in bocca o nel piatto ove sta mangiando ma è conteso ospite alla tavola dei ricchi e dei potenti; non sorride mai ma si traveste da santo mettendosi in testa, a mo’ di aureola, la superficie attiva di un hard disk della prima generazione; non ha i soldi per pagarsi una cena al ristorante ma ha sconvolto un mercato da migliaia di miliardi di dollari.

Pag. 2.

52-55

Comunque, in contrasto con la professione di ateismo, i suoi atteggiamenti e le sue idee appaiono caratterizzate da una profonda, rigida religiosità. Per altro, soltanto gli uomini dotati di profonda, convinta religiosità, sono in grado di determinare le eccezionali trasformazioni delle regole del gioco. Come ogni autentico credente, Richard considera sacri i principi della sua fede e non accetta mai alcun tipo di compromesso. Anzi, nella sua intransigenza, diventa quasi violento quando lo si contraddice sui dogmi.

Pag. 4.

56-60

La storia della sua azione scientifica e politica inizia nei primi anni ’80, quando, come diffusamente raccontato nel libro, percepisce che i principi della libera diffusione e condivisione del software e delle idee che hanno caratterizzato i primi tre decenni dello sviluppo dell’informatica, sono violati da un nuovo atteggiamento delle aziende informatiche più importanti. Queste, non distribuiscono più il codice sorgente dei loro programmi per evitare la loro copiatura e non consentono, quindi, ai loro utilizzatori, l’adeguamento alle proprie esigenze e il miglioramento di funzionalità e prestazioni.

Pag. 4.

70-74

Nell’arco di 7-8 anni la Free Software Foundation costruisce un enorme patrimonio di programmi: compilatori, manipolatori di testi, strumenti di sviluppo, ma non completa lo sviluppo del nucleo del sistema operativo. Fortunatamente, nel 1991, uno studente finlandese, allora ventunenne, Linus Torvalds, decide di sviluppare il nucleo, “just for fun”, come spiegherà in un libro dedicato al racconto affascinante del suo progetto. Parte da un prodotto didattico molto diffuso nelle università e chiama a raccolta un certo numero di progettisti e programmatori volontari. Così, in tempi incredibilmente brevi, l’opera di Stallman viene completata e nasce il nuovo sistema operativo GNU/Linux.

Pag. 5.

86-90

Confesso di aver sempre ammirato Stallman e di aver condiviso le sue idee, ma di aver sempre ritenuto utopistico il suo progetto politico e scientifico. Quando alcuni anni fa proposi all’allora ministro della Ricerca Scientifica, Luigi Berlinguer, un programma nazionale di ricerca sul software libero, rimasto ignorato nei suoi cassetti, mi aspettavo soltanto risultati parziali e benefici, relativamente limitati per il settore dell’informatica italiana. Oggi sono invece convinto che Stallman sia molto vicino all’arco di trionfo.

Pag. 6.

93-96

Soprattutto, la crescita esponenziale delle conoscenze ha portato all’esplosione della complessità e ha reso sempre più difficile per le multinazionali del software la competizione con quello che il filosofo Polanyi chiama “La Repubblica della Scienza”, ossia la comunità dei ricercatori pubblici di tutto il mondo. Oggi il patrimonio collettivo del software libero è molto più ricco di quello del software proprietario.

Pag. 7.

96-100

Il gioco continua a essere del tipo: “Il più forte prende tutto”, ma oggi il più forte è il mondo della collaborazione. Oggi collaborare è più conveniente che competere. Un nuovo modello di sviluppo basato sulla solidarietà è oggi possibile, non soltanto per una scelta razionale dell’umanità, ma anche in virtù delle novità che ho elencato e della conseguente trasformazione radicale delle regole dell’economia mondiale. Angelo Raffaele Meo Torino, 19 dicembre 2002 Politecnico di Torino

Pag. 7.

111-19

“Non metterti mai a litigare con qualcuno che compra l’inchiostro a barili”, recita un vecchio adagio di Mark Twain. Nel caso di Stallman, non cercare mai di scrivere la biografia definitiva di qualcuno che rende di dominio pubblico ogni propria idea. Per quei lettori che hanno deciso di dedicare qualche ora del proprio tempo all’esplorazione di questo volume, posso sostenere con fiducia che qui troverete fatti e citazioni impossibili da scovare in un articolo su Slashdot o tramite una ricerca con Google. Tuttavia, anche l’accesso a questi eventi richiede il pagamento di una tariffa. Nel caso del libro in versione cartacea, potete pagare in maniera tradizionale, acquistandolo cioè nei normali canali di vendita. Invece per l’edizione elettronica si può pagare seguendo il metodo del software libero. Grazie alla decisione dell’editore O’Reilly & Associates, questo volume viene distribuito sotto la GNU Free Documentation License (Licenza per Documentazione Libera GNU), rendendo così possibile a chiunque migliorarne i contenuti o crearne versioni personalizzate per poi ridistribuirle sotto la medesima licenza.

Pag. 8.

226-29

Il concetto della condivisione dell’informazione occupava un ruolo talmente centrale nella cultura hacker che sarebbe stata solo questione di tempo prima che un collega di qualche laboratorio universitario o di altra struttura aziendale riuscisse a fornirgli la versione testuale dei sorgenti relativi a quel software.

Pag. 15.

239-49

Nella concezione di un programmatore degli anni ’70, questa operazione era l’equivalente software di un vicino di casa che veniva a chiederci in prestito un utensile o una tazza di zucchero. Nel caso del prestito di una copia del software per il laboratorio di intelligenza artificiale, l’unica differenza stava nel fatto che Stallman non aveva privato gli hacker di Harvard dell’utilizzo del programma originale. Anzi, erano stati proprio costoro a trarne vantaggio, considerate le nuove funzionalità aggiuntevi dallo stesso Stallman, funzionalità che rimanevano a loro completa disposizione. Anche se nessuno ad Harvard richiese mai quel programma, Stallman ricorda che lo fece invece uno sviluppatore della società privata Bolt, Beranek & Newman, il quale vi apportò ulteriori aggiunte poi reintegrate da Stallman nell’archivio dei codici sorgenti organizzato presso lo stesso laboratorio di intelligenza artificiale. “Normalmente ogni programma seguiva uno sviluppo analogo a quello della pianificazione cittadina”, dice Stallman in riferimento all’infrastruttura informatica in vigore in quel laboratorio. “Alcune aree venivano interamente sostituite e ricostruite. Vi si aggiungevano nuovi elementi. Ma era sempre possibile isolarne qualche sezione e dire, ‘A giudicare dallo stile, queste stringhe sono state scritte all’inizio degli anni ’60, mentre queste altre risalgono a metà anni ’70’.”

Pag. 16.

249-57

Grazie a questo semplice sistema di crescita intellettuale, gli hacker operanti nel laboratorio di intelligenza artificiale e in altri ambiti riuscirono a mettere in piedi prodotti particolarmente affidabili. Fu ricorrendo a tale strategia che, sulla costa occidentale degli Stati Uniti, i ricercatori della University of California di Berkeley, in collaborazione con alcuni ingegneri di primo livello presso la AT&T, realizzarono un intero sistema operativo. Chiamato Unix, con un gioco di parole riferito ad un sistema operativo più vecchio e più rispettabile in ambito accademico noto come Multics, il software venne messo a disposizione di qualunque programmatore disposto ad accollarsi le spese per copiarlo su un nuovo nastro magnetico e per la successiva spedizione. Non tutti gli sviluppatori coinvolti in questa cultura amavano autodefinirsi hacker, ma la vasta maggioranza condivideva i sentimenti di Richard M. Stallman. Se un programma o una correzione software si dimostravano sufficientemente validi da risolvere i problemi dell’autore, potevano risolvere anche quelli di qualcun altro. Perché allora non condividerli anche soltanto per guadagnarsi un buon karma?

Pag. 17.

304-7

Invece Stallman considerava la faccenda in maniera diametralmente opposta. Si trattava del rifiuto da parte della Xerox e di Sproull, o chiunque fosse la persona che quel giorno si trovò di fronte, di far parte di un sistema che fino ad allora aveva spinto gli sviluppatori a considerare i programmi al pari di risorse comuni. Come un contadino i cui canali d’irrigazione vecchi di secoli si fossero improvvisamente prosciugati, Stallman aveva seguito quei canali fino alla sorgente soltanto per scoprire una nuova diga idroelettrica in cui spiccava il logo della Xerox.

Pag. 20.

385-90

Si tratta di Richard M. Stallman, fondatore del progetto GNU, presidente fondatore della Free Software Foundation, vincitore nel 1990 della MacArthur Fellowship, del premio Grace Murray Hopper assegnato (nello stesso anno) dalla Association of Computing Machinery, nonché nel 2001 co-vincitore del premio Takeda della Takeda Foundation, e già hacker presso il laboratorio di intelligenza artificiale. Come annunciato su una schiera di siti web del mondo hacker, incluso quello dello stesso progetto GNU (http://www.gnu.org), Stallman si trova a Manhattan, suo luogo di nascita, per tenere un atteso intervento in replica alla recente campagna lanciata dalla Microsoft Corporation contro la GNU General Public License.

Pag. 26.

395-401

In sintesi, la GPL vincola i programmi software a una sorta di proprietà collettiva – quello che oggi gli studiosi di diritto vanno definendo come “bene comune digitale” – facendo leva sul peso legale del copyright. Una volta vincolati, i programmi divengono inamovibili. Ogni loro versione successiva deve contenere la medesima protezione sul copyright – perfino quei programmi derivati che includono soltanto una porzione minima del codice originario. Questo il motivo per cui qualcuno nell’industria del software ha definito la GPL una licenza “virale”, nel senso che si autoriproduce all’interno di ogni software con cui viene a contatto1.

Pag. 26.

403-8

Linux, il kernel in stile Unix sviluppato dallo studente finlandese Linus Torvalds nel 1991, viene rilasciato sotto la licenza GPL, al pari di gran parte degli strumenti di programmazione più diffusi al mondo: GNU Emacs, GNU Debugger, GNU C Compiler, ecc. Nel loro insieme, tali strumenti rappresentano i componenti di un sistema operativo libero sviluppato, mantenuto e posseduto dalla comunità hacker mondiale. Anziché considerare quest’ultima come una minaccia, grandi società informatiche quali IBM, Hewlett-Packard e Sun Microsystems hanno deciso di appoggiarla, commercializzando applicazioni e servizi realizzati per operare appositamente all’interno dell’infrastruttura in continua crescita del software libero.

Pag. 27.

446-52

Citando la rapida evoluzione del mercato tecnologico nel corso degli ultimi vent’anni, nonché l’ammirevole record di crescita della propria azienda nello stesso periodo, Mundie ha messo in guardia i presenti contro i facili entusiasmi per i recenti successi del movimento del software libero: Due decenni di esperienza hanno dimostrato come un modello economico capace di tutelare la proprietà intellettuale e un modello commerciale in grado di recuperare gli stanziamenti per la ricerca e lo sviluppo, siano in grado di creare notevoli benefici economici e di distribuirli in maniera assai ampia5.

Pag. 30.

482-85

“Richard incarna il perfetto esempio di qualcuno che, operando a livello locale, ha iniziato a pensare globalmente [ai] problemi relativi alla mancata disponibilità del codice sorgente”, dice Schonberg. “Ha così sviluppato una filosofia coerente che ha costretto tutti noi a riesaminare le nostre concezioni sulla produzione del software, sul significato della proprietà intellettuale e sul valore concreto della comunità dei programmatori.”

Pag. 32.

489-502

Per i non iniziati, Stallman passa poi ad illustrare rapidamente un’analogia per il software libero. Egli è solito paragonare un programma a una ricetta di cucina. Entrambi forniscono istruzioni dettagliate su come portare a compimento un certo compito e possono essere facilmente modificati a seconda di esigenze o circostanze individuali. “Non occorre seguire alla lettera una ricetta”, fa notare Stallman. “Si può omettere qualche ingrediente. Aggiungere un po’ di funghi perché ci piacciono. Mettere meno sale perché così ci ha consigliato il medico – e via di seguito.” Elemento ancor più rilevante, prosegue Stallman, è la semplicità nel condividere sia ricette che programmi. Nel passare la ricetta a un ospite, il cuoco non ci rimette altro che il tempo e il costo della carta necessari per scrivere la ricetta. Per il software occorre ancora meno, in genere basta qualche clic del mouse e un minimo di elettricità. In entrambi i casi, tuttavia, la persona che trasmette quelle informazioni guadagna due cose: una maggiore amicizia e la possibilità di ottenere in cambio altre ricette interessanti. “Immaginiamo cosa accadrebbe se le ricette fossero rinchiuse all’interno di scatole nere”, prosegue Stallman, cambiando registro. “Sarebbe impossibile vedere gli ingredienti usati, per non parlare della possibilità di modificarli; e chissà quali conseguenze nel farne una copia per un amico. Saremmo bollati come pirati, processati e sbattuti in galera per anni. Uno scenario che susciterebbe accese proteste da parte di quanti amano scambiarsi ricette. Ma questo è esattamente lo scenario dell’odierno software proprietario. Un mondo in cui si proibiscono o impediscono azioni di comune buon senso verso gli altri.”

Pag. 32.

530-39

Per comprendere le motivazioni che sottendono all’attuale scenario, potrà giovare un’analisi del personaggio sia tramite le sue parole sia tramite quelle di chi ha collaborato e combattuto al suo fianco fino a oggi. Non sembra certo complicato tracciarne un ritratto. Se c’è una persona che può incarnare il vecchio adagio, “quel che vedi è quello che ottieni7”, questi è Stallman. “Credo che per comprendere Richard Stallman in quanto essere umano, bisogna considerarne le varie componenti come un insieme coerente”, mette sull’avviso Eben Moglen, consigliere legale per la Free Software Foundation e professore di legge presso la Columbia University Law School. “Tutte quelle espressioni di eccentricità personale che molta gente percepisce come ostacoli alla conoscenza di Stallman, in realtà ne costituiscono l’essenza: il suo forte senso di frustrazione, l’enorme attaccamento ai principi etici, l’incapacità di scendere a compromessi, soprattutto su questioni che considera fondamentali. Ecco le ragioni concrete per cui Richard ha fatto ciò che ha fatto quando lo ha fatto.”

Pag. 35.

555-63

realtà i punti di forza della GPL non sembrano in fondo così potenti. Nella sezione 10 della GNU General Public License, Versione 2 (1991), la natura virale della licenza dipende parecchio dalla volontà della Free Software Foundation di considerare un programma come opera derivata, per non parlare della licenza precedente che la GPL andrebbe a sostituire. Se si vogliono incorporare parti di questo programma in altri programmi liberi con differenti condizioni di distribuzione, occorre chiederne il permesso all’autore. Per quanto concerne software tutelato dal copyright della Free Software Foundation, va contattata quest’ultima; talvolta facciamo delle eccezioni a quanto sopra. La nostra decisione si basa sui due obiettivi di fondo: preservare la condizione libera di tutti i programmi derivati dal nostro software libero, e promuovere la condivisione e il riutilizzo del software in generale. “Qualsiasi paragone con un virus appare eccessivo”, sostiene Stallman. “Analogia più accurata è quella di una pianta in grado di propagarsi altrove, ma soltanto se qualcuno ne taglia un pezzo e lo trapianta.”

Pag. 37.

632-35

Come unico genitore per circa un decennio – lei e il padre di Richard, Daniel Stallman, si sposarono nel 1948 per divorziare nel 1958, condividendo poi la custodia del figlio – la madre convalida l’avversione del figlio per l’autorità costituita. Ne conferma altresì la brama di conoscenza. Era quando queste due forze s’intrecciavano, insiste, che lei e il figlio si davano alle battaglie più accese.

Pag. 42.

683-95

Un articolo apparso nel dicembre 2001 sul mensile Wired con il titolo “The Geek Syndrome” presenta la descrizione di diversi bambini portati per la scienza, e affetti da autismo ad alta funzionalità o sindrome di Asperger. Per molti versi, i ricordi dei genitori riportati nell’articolo di Wired assomigliano stranamente a quelli raccontati da Alice Lippman. Perfino Stallman di tanto in tanto si è concesso qualche analisi psichiatrica. Nel 2000, durante un’intervista per il Toronto Star, Stallman si è autodefinito “sull’orlo dell’autismo”3 descrizione che la dice lunga sulle ragioni della sua continua tendenza verso l’isolamento sociale ed emotivo, e sullo sforzo parimenti intenso di superare tale tendenza. Naturalmente queste speculazioni sono facilitate dal tira e molla che oggi si opera sulla maggior parte dei cosiddetti “disturbi comportamentali”. Come fa notare Steve Silberman, autore di “The Geek Syndrome”, soltanto recentemente gli psichiatri americani sono arrivati a considerare la sindrome di Asperger come termine valido per coprire un’ampia serie di tratti comportamentali. Questi vanno da scarse capacità motorie a difficoltà di socializzazione, da un’intelligenza assai vivace a un’affinità quasi ossessiva con numeri, computer e sistemi ordinati4. Riflettendo sulla natura variegata di tale classificazione, Stallman ritiene che, se fosse nato 40 anni più tardi, sarebbe probabilmente rientrato in quella diagnosi. Ma, ancora una volta, lo stesso può dirsi per molti suoi colleghi nel mondo informatico.

Pag. 45.

734-41

“Spesso avevo la sensazione di non essere in grado di capire quel che gli altri andavano dicendo”, spiega Stallman, rammentando la bolla emotiva che lo isolava dal resto del mondo adolescenziale e adulto. “Ne comprendevo le parole, ma c’era qualcosa nelle conversazioni che non riuscivo ad afferrare. Non capivo perché mai la gente fosse interessata a quello che dicevano gli altri.” Pur in tutta quell’agonia, l’adolescenza avrebbe infine prodotto un effetto incoraggiante sul suo senso d’individualità. In un periodo in cui la maggior parte dei compagni di classe si lasciavano crescere i capelli, Stallman preferiva tenerli corti. In un epoca in cui tutto il mondo giovanile ascoltava il rock & roll, egli optava per la musica classica. Convinto appassionato di fantascienza, della rivista Mad e dei programmi notturni in televisione, Stallman andava coltivando una personalità decisamente anticonformista che gli valse l’incomprensione di genitori e amici.

Pag. 48.

768-73

Durante l’ultimo anno delle medie, la madre decise di consultare un terapista. Quest’ultimo rimase subito colpito dal rifiuto di Stallman per i compiti scritti e dai frequenti confronti con gli insegnanti. Il figlio era sicuramente dotato dei requisiti intellettuali per eccellere ad Harvard, ma aveva forse la pazienza di seguire quei corsi che alla fine impongono una relazione scritta? Il terapista suggerì una sorta di test. Se Stallman fosse riuscito a frequentare con successo un anno presso una scuola pubblica di New York City, incluso l’esame di una materia come inglese che richiede un compito scritto, probabilmente ce l’avrebbe fatta anche ad Harvard.

Pag. 51.

904-13

Come molti studenti provenienti dallo Science Honors Program, anche Stallman superò facilmente l’esame di ammissione per Math 55, il corso riservato alle matricole dotate in matematica, diventato leggendario per la sua difficoltà. Al suo interno, quanti provenivano dal programma della Columbia University formarono subito un’unità di ferro. “Eravamo la mafia della matematica”, dice Dan Chess con una risata. “Harvard valeva ben poco, almeno in paragone allo Science Honors Program.” Prima di guadagnarsi il diritto a vantarsene, però, Stallman, Chess e gli ex studenti di quel programma, dovevano superare il corso di Math 55. Quest’ultimo condensava quattro anni di lezioni in appena due semestri, e mirava soltanto ai veri adepti. “Era un corso davvero incredibile”, sostiene David Harbater, ex aderente alla “mafia della matematica” e oggi professore della stessa materia presso la University of Pennsylvania. “È plausibile sostenere che non sia mai esistito un corso per matricole talmente intenso e avanzato. Quel che dicevo agli altri giusto per dare loro un’idea, era che tra le altre cose nel secondo trimestre discutevamo la geometria differenziale della varietà di Banach. A quel punto strabuzzavano gli occhi, perché generalmente tale geometria compariva dopo il secondo anno.”

Pag. 59.

917-21

“Era pignolo, ma in modo strano”, dice Breidbart. “In matematica c’è una tecnica standard che tutti sbagliano. Si tratta di un uso errato della notazione, quando bisogna definire una funzione e quello che in realtà si fa è definire prima la funzione e poi dimostrare che è definita correttamente. Solo che, la prima volta che si trovò a presentarla, egli definì una relazione dimostrando poi che è una funzione. È la stessa identica dimostrazione, ma in cui Stallman aveva utilizzato la terminologia corretta, cosa che non aveva fatto nessun altro. Questo per dire come era fatto.”

Pag. 60.

926-30

Per Chess fu un momento difficile. Come un uccello che, volando, finisce contro il vetro di una finestra lucida, gli ci volle un po’ per rendersi conto che questo livello di intuito era semplicemente fuori dalla sua portata. “Questo per quanto riguarda la matematica”, sostiene Chess. “Non occorre un matematico di massimo grado per riconoscere un talento eccezionale. Ero cosciente di aver raggiunto un ottimo livello, ma sapevo anche di non potermi considerare un matematico eccelso.”

Pag. 61.

932-35

Nella richiesta per una stanza ad Harvard, non mancò di specificare le proprie esigenze. “Dissi che preferivo stare con qualcuno invisibile, inascoltabile, intangibile.” In un evento di rara perspicacia burocratica, i responsabili amministrativi accettarono quella richiesta, assegnando a Stallman una stanza da solo per quell’anno da matricola.

Pag. 61.

962-70

Nonostante l’evidente volontà di mettere in luce la debolezza intellettuale di compagni e professori nel corso delle lezioni, Stallman odiava l’idea della competizione testa a testa. “È lo stesso motivo per cui non mi è mai piaciuto giocare a scacchi”, aggiunge Stallman. “Ogni volta che ci provavo, ero talmente consumato dal terrore di sbagliare una sola mossa che cominciavo a fare stupidi errori fin dall’inizio. La paura divenne così una sorta di profezia autoreferenziale.” Se poi la stessa paura vada ritenuta responsabile della decisione di scansare la carriera di matematico, è questione opinabile. Verso la conclusione del suo anno da matricola, Stallman scoprì altri interessi che finirono per allontanarlo da quell’ambiente. La programmazione al computer, il cui fascino latente lo aveva accompagnato negli anni delle medie, andava trasformandosi in una vera e propria passione. Laddove gli altri studenti di matematica trovavano occasionale rifugio in materie quali arte e storia, Stallman si rintanava nei laboratori d’informatica.

Pag. 63.

1005-12

Stallman imparò rapidamente che in quell’ambito la pratica del “chi prima arriva, meglio alloggia” si doveva in gran parte agli sforzi di un pugno di persone. Molti erano reduci dall’epoca del progetto MAC, il programma di ricerca sostenuto dal Ministero della Difesa che aveva dato i natali ai primi sistemi operativi a condivisione di tempo (time-sharing). Alcuni erano già leggende del mondo informatico. C’era Richard Greenblatt, l’esperto locale di Lisp e autore di MacHack, programma per giocare a scacchi che una volta aveva umiliato Hubert Dreyfus, critico feroce dell’intelligenza artificiale. C’era Gerald Sussman, creatore originale del programma per funzioni robotiche denominato HACKER. E ancora, Bill Gosper, il mago della matematica già nel bel mezzo di un lavoro di hacking durato 18 mesi, messo in moto dalle implicazioni filosofiche del computer game LIFE5.

Pag. 66.

1065-69

“Ricordo d’aver visto molte volte l’alba tornando in macchina da Chinatown”, disse Stallman con una punta di nostalgia 15 anni dopo, in un discorso tenuto allo Swedish Royal Technical Institute. “L’alba era davvero un spettacolo meraviglioso, perché è un momento così calmo della giornata. Periodo ideale per prepararsi ad andare a letto. È così bello camminare verso casa tra le prime luci del giorno con gli uccelli che iniziano a cinguettare; si prova una concreta sensazione di soddisfazione e tranquillità rispetto al lavoro svolto durante la notte.”8

Pag. 70.

1071-73

Già sostenitore della libertà individuale, prese a infondere un senso di responsabilità comune in ogni sua azione. Quando gli altri violavano delle norme condivise, Stallman saltava subito su a evidenziarlo. A un anno dalla sua prima visita, eccolo irrompere negli uffici chiusi a chiave per recuperare i terminali sequestrati che appartenevano all’intera comunità del laboratorio.

Pag. 70.

1127-38

Avuto accesso al codice del software che controllava il sistema delle password, vi introdusse un comando che inviava un messaggio agli utenti del laboratorio d’informatica quando uno di questi si apprestava a creare una password. Se per esempio qualcuno sceglieva “starfish”, veniva generato un messaggio che diceva all’incirca: Vedo che hai scelto “starfish” come password. Ti suggerisco di modificarla in “carriage return.” E’ molto più facile da digitare e aderisce al principio che nega l’esistenza di alcuna password.11 Gli utenti che optavano per “carriage return” – quelli cioè che semplicemente premevano il tasto Invio, lasciando in bianco la stringa della password invece di digitarne una personale – consentivano l’accesso al mondo intero, tramite il proprio account. Una pratica che, per quanto preoccupasse qualcuno, rinforzava il concetto secondo cui i computer del MIT, e perfino i file contenuti, appartenevano al pubblico anziché ai singoli individui. Nel corso di un intervista per il libro del 1984 Hackers, Stallman fece notare con orgoglio come un quinto dello staff del laboratorio d’informatica aderì a quella posizione, lasciando in bianco la stringa per la password.12

Pag. 74.

1166-72

Nel 1977, mentre partecipava a un incontro sulla fantascienza, s’imbatté in una ragazza che vendeva spillette con slogan personalizzati. Eccitato, Stallman gliene ordinò una con la scritta “Processiamo Dio.” Per Stallman si trattava di un messaggio che operava a diversi livelli. Ateo fin dalla prima giovinezza, quella frase rappresentava il tentativo di implementare un “secondo fronte” nel dibattito aperto sulla religione. “A quel tempo tutti parevano chiedersi se Dio fosse vivo o morto”, rammenta Stallman. “Quel ‘Processiamo Dio’ proponeva un approccio completamente diverso al problema. Se Dio era davvero così potente da aver creato il mondo senza tuttavia far nulla per correggerne i problemi, perché mai avremmo dovuto adorare un tale Dio? Non sarebbe stato invece meglio metterlo sotto processo?”

Pag. 77.

1185-88

Un secolo dopo l’avvertimento di Lord Acton sull’equazione tra potere assoluto e corruzione altrettanto assoluta, gli americani sembravano aver dimenticato la prima parte del truismo di Acton: è il potere stesso a corrompere. Anziché porre in evidenza i numerosi esempi di flagrante corruzione, Stallman parve soddisfatto di esprimere in tal modo il proprio oltraggio nei confronti di un intero sistema che venerava il potere al di sopra di tutto.

Pag. 78.

1235-41

In un articolo dal titolo “Il santo del software libero”, apparso nel 1998 su Salon.com, Andrew Leonard ne descrive gli occhi come “irradianti la forza di un profeta del Vecchio Testamento.”1 Un articolo del 1999 sul mensile Wired dipinge la barba di Stallman simile a “quella di Rasputin”2, mentre un profilo del London Guardian ne descrive il sorriso come di “un discepolo che ha visto Gesù.”3

Pag. 81.

1273-75

Accettando il Linus Torvalds Award for Community Service a nome della Free Software Foundation, dichiarò al microfono: “Offrire il Linus Torvalds Award alla Free Software Foundation è un po’ come dare il Premio Han Solo all’alleanza ribelle di Guerre Stellari.”

Pag. 83.

1367-70

Eppure ammise di aver imparato un paio di cose sull’aspetto sociale innescato dal fenomeno Napster. “Prima di Napster, ritenevo giusta la libera distribuzione a livello privato di opere di intrattenimento”, spiegò Stallman. “Il numero di persone per cui Napster si è rivelato utile mi dice, tuttavia, che il diritto alla redistribuzione di copie, non solo nell’ambito del vicinato ma a livello di un pubblico più vasto, rimane un fatto essenziale e perciò non può essere cancellato.”

Pag. 90.

1428-31

“Credo mi abbia aiutato”, replicò Stallman continuando a masticare. “Non ho mai compreso appieno le implicazioni della pressione dei coetanei su qualcuno. Credo il motivo fosse che venivo respinto senza speranza, così non avevo nulla da guadagnare cercando di seguire le mode del momento. Nel mio caso non avrebbe portato ad alcuna differenza. Mi avrebbero rifiutato ugualmente, così non ci provai neppure.”

Pag. 94.

1467-79

Secondo Stallman le opere sotto copyright vanno divise in tre diverse categorie. La prima include quelle “funzionali”, ovvero programmi informatici, dizionari, libri di testo. La seconda è per le opere definite “testimoniali”, cioè relazioni scientifiche e documenti storici. Si tratta di lavori il cui senso verrebbe stravolto qualora lettori e altri autori potessero modificarli a piacimento. L’ultima categoria riguarda le opere di espressione personale, quali diari, resoconti, autobiografie. Modificare questi documenti significherebbe alterarne i ricordi o il punto di vista – azione eticamente ingiustificabile nell’opinione di Stallman. Delle tre categorie, la prima dovrebbe garantire agli utenti il diritto illimitato alla creazione di versioni modificate, mentre per la seconda e la terza tale diritto andrebbe regolamentato a seconda della volontà dell’autore originale. Indipendentemente dalla categoria di appartenenza, dovrebbe tuttavia rimanere inalterata la libertà di copia e redistribuzione a livello non commerciale, insiste Stallman. Se ciò significa consentire agli utenti Internet di generare un centinaio di copie di un articolo, un’immagine, una canzone o un libro per poi inviarle via email a un centinaio di sconosciuti, ebbene così sia. “È chiaro che la redistribuzione occasionale in ambito privato debba essere permessa, perché soltanto uno stato di polizia potrebbe impedirlo”, aggiunge. “È pratica antisociale frapporsi tra una persona e i propri amici. Napster mi ha convinto della necessità di permettere perfino la redistribuzione non-commerciale al pubblico più ampio anche solo per il divertimento. Perché c’è così tanta gente che la considera un’attività utile.”

Pag. 96.

1479-89

Quando gli chiesi se i tribunali sarebbero disposti ad accettare uno scenario talmente permissivo, Stallman m’interruppe bruscamente. “Ecco una domanda sbagliata”, replicò. “Hai spostato completamente l’argomento, passando da una questione etica all’interpretazione legislativa. Si tratta di due aspetti totalmente diversi pur nello stesso ambito. È inutile saltare da uno all’altro. I tribunali continueranno a interpretare le norme attuali per lo più in maniera restrittiva, poiché è così che tali norme sono state imposte dagli editori.” Il commento portò a una riflessione sulla filosofia politica di Stallman: solo perché attualmente il sistema legale permette agli imprenditori di trattare il copyright come l’equivalente informatico di un contratto di proprietà terriera, ciò non significa che gli utenti debbano necessariamente conformarsi a queste regole. La libertà è una faccenda etica, non legale. “Guardo al di là delle norme esistenti per considerare come invece dovrebbero essere”, spiegò Stallman. “Non sto cercando di stilare una legislazione. Mi sto forse occupando delle applicazioni della legge? Piuttosto, considero le norme che vietano la condivisione di copie col vicino come l’equivalente morale di Jim Crow16. Qualcosa che non merita alcun rispetto.”

Pag. 97.

1516-22

“Sì, ho esitato ad ampliare l’importanza di questa piccola pozzanghera di libertà”, rispose. “Perché le aree convenzionali e collaudate in cui si lavora per la libertà e per una società migliore sono tremendamente importanti. Non ritengo ugualmente vitale la battaglia a sostegno del software libero. Questa è la responsabilità che mi sono assunto, perché mi è caduta in grembo e ho capito che avrei potuto portare contributi positivi. Ma, ad esempio, porre fine alla brutalità della polizia, alla guerra per droga, alle forme di razzismo tuttora presenti, oppure aiutare qualcuno a vivere meglio, a tutelare il diritto delle donne ad abortire, a proteggerci dalla teocrazia, si tratta di questioni di enorme importanza, ben superiori a ogni mio possibile intervento. Non saprei come offrire contributi efficaci in quei contesti.”

Pag. 99.

1525-28

“Vorrei essere in grado di contribuire in maniera significativa alle questioni di maggiore rilevanza, ne sarei tremendamente orgoglioso, ma si tratta di problemi davvero grossi e quanti se ne occupano, ben più in gamba del sottoscritto, non sono ancora riusciti a risolvere granché”, aggiunse. “Eppure, per come la vedo io, mentre altre persone ci difendevano contro queste grandi minacce ben visibili, io ne ho individuata un’altra rimasta sguarnita. E così ho deciso di combatterla. Forse non è un minaccia altrettanto grande, ma io sono stato l’unico a farmi avanti.”

Pag. 100.

1546-55

Fino ad oggi la palma del confronto più estremo spetta a Linus Torvalds, il quale, nella sua autobiografia – si veda Linus Torvalds & David Diamond, Rivoluzionario per caso, Garzanti, 2001 – scrive: “Richard Stallman è il Dio del Software Libero.” Una menzione d’onore spetta a Larry Lessig, il quale in una nota a descrizione di Stallman inclusa nella sua opera – si veda Larry Lessig, The Future of Ideas, Random House, 2001, p. 270 – lo paragona a Mosé: “[…] come Mosé, toccò a un altro leader, Linus Torvalds, guidare finalmente il movimento alla terra promessa, facilitando lo sviluppo della parte finale del sistema operativo. Come Mosé, anche Stallman viene contemporaneamente rispettato e vilipeso dagli stessi alleati all’interno del movimento. Si tratta di un leader implacabile, e quindi d’ispirazione per molti, in un ambito criticamente importante per la cultura moderna. Nutro un profondo rispetto per i principi e l’abnegazione di questo straordinario individuo, sebbene abbia grande rispetto anche per coloro talmente coraggiosi da metterne in dubbio il pensiero e poi sostenerne l’ira funesta.”

Pag. 101.

1665-69

“In materie come fisica o matematica, non riuscivo mai a proporre contributi originali”, sostiene Stallman riferendosi alle vicissitudini precedenti la ferita al ginocchio. “Sarei stato orgoglioso di fornire contributi allo sviluppo di uno dei due campi, ma non vedevo come avrei potuto farlo. Non sapevo da che parte cominciare. Col software, invece, sapevo già come scrivere cose funzionanti e utili. Il piacere di questa conoscenza mi portò a desiderare di proseguire su questa strada.”

Pag. 109.

1701-5

Nel 1968 in un famoso intervento Doug Engelbart, allora ricercatore presso lo Stanford Research Institute, illustrò il prototipo di quella che sarebbe diventata l’interfaccia grafica moderna. Con l’aggiunta di un monitor televisivo e di un puntatore chiamato “mouse”, Engelbart mise a punto un sistema ancora più interattivo di quello a condivisione di tempo sviluppato al MIT. Trattando il monitor come una stampante ad alta velocità, tale sistema offriva la possibilità di seguire gli spostamenti del cursore sul video in tempo reale. Tutt’a un tratto l’utente era in grado di posizionare il testo in una parte qualunque dello schermo.

Pag. 111.

1732-39

La modifica di Mikkelson aveva elevato TECO al livello di un editor WYSIWYG, quella di Stallman al livello di un editor WYSIWYG programmabile dall’utente. “Si trattò di una vera e propria rivoluzione”, sostiene Guy Steele, uno degli hacker allora presenti nel laboratorio di intelligenza artificiale del MIT. Nel ricordo dello stesso Stallman, l’idea delle macro provocò un’esplosione di innovazioni a catena. “Ognuno costruì la propria serie di comandi per l’editor, ciascuno dei quali attivava le funzioni più comunemte utilizzate”, avrebbe successivamente ricordato. “Le macro venivano passate di mano in mano e migliorate, così da ampliarne la portata e l’utilizzo. Gradualmente le raccolte di macro si trasformarono in veri e propri programmi”. L’innovazione si rivelò utile per così tante persone, che la inserirono nella loro versione di TECO, tanto che quest’ultimo divenne secondario rispetto alla mania delle macro così generata.

Pag. 113.

1751-62

Frustrato, Steele si fece carico di risolvere il problema. Raccolse quattro diversi pacchetti di macro e iniziò a compilare un grafico che documentasse i comandi più utili. Fu mentre lavorava all’implementazione dei vari comandi specifici che Steele attrasse l’attenzione di Stallman. “Prese a sbirciare dietro le mie spalle, chiedendomi cosa stessi facendo”, rammenta. Per Steele, hacker tranquillo che raramente si era trovato ad interagire con Stallman, il ricordo è ancora palpabile. Osservare un hacker al lavoro da dietro le spalle costituiva un’attività comune in quel laboratorio. Stallman, incaricato della gestione di TECO, definì “interessante” l’idea di Steele e decise di condurla rapidamente in porto. “Come mi piace sostenere, io curai il primo 0,001 per cento dell’implementazione e Stallman si occupò del resto”, ricorda Steele con un sorriso. Il nome per il nuovo progetto, Emacs, venne scelto dallo stesso Stallman. Abbreviazione di “editing macros”, stava a indicare la trascendenza evolutiva avvenuta nel corso di quei due anni dall’esplosione delle macro. Approfittava inoltre di un vuoto nel lessico della programmazione interna. Notando la mancanza nel sistema ITS di programmi che iniziavano con la lettera “E”, la scelta di Emacs ne rese possibile l’identificazione tramite la sola lettera iniziale. Ancora una volta la brama degli hacker per la massima efficienza aveva centrato l’obiettivo7.

Pag. 115.

1764-66

Con la creazione di un programma standard, Stallman si poneva in chiara violazione di uno dei comandamenti dell’etica hacker: “promuovi la decentralizzazione”. E contemporaneamente minacciava di ostacolare la flessibilità che aveva inizialmente alimentato l’esplosiva innovazione di TECO.

Pag. 115.

1770-78

Stallman si trovava però di fronte a un nuovo rompicapo: se gli utenti avessero apportato modifiche senza comunicarle al resto della comunità, l’effetto Torre di Babele sarebbe semplicemente riemerso altrove. Rifacendosi alla dottrina hacker sulla condivisione delle innovazioni, Stallman inserì nel codice sorgente una dichiarazione che ne stabiliva le modalità d’utilizzo. Ciascuno era libero di modificare e ridistribuire il codice a condizione di informare gli altri sulle ulteriori estensioni ideate. E scelse come soprannome “Emacs Commune” (la comune dell’Emacs). Così come TECO era divenuto qualcosa di più di un semplice elaboratore testi, Emacs era diventato qualcosa di più di un semplice programma. Per Stallman si trattava di un contratto sociale. In uno dei primi appunti relativi al progetto, ne descrisse in dettaglio i termini. “L’EMACS”, scrisse, “viene distribuito sulla base della condivisione comune, ovvero ogni miglioramento deve essere ritrasmesso a me che provvederò a incorporarlo nelle successive redistribuzioni.”8

Pag. 116.

1801-8

Col passare del tempo, Emacs si trasformò in un veicolo per la diffusione dell’etica hacker. La flessibilità di cui lo avevano dotato Stallman e gli altri hacker non soltanto incoraggiava la collaborazione ma anzi la imponeva. Gli utenti che non si aggiornavano sullo sviluppo del software o che non inviavano a Stallman i propri contributi, correvano il rischio di rimanere tagliati fuori dalle ultime novità. E queste erano tutt’altro che poca cosa. A vent’anni dalla sua creazione, gli utenti avevano modificato Emacs per consentirne l’impiego in molti ambiti – come foglio di calcolo, calcolatrice, database, browser Web – al punto che gli ultimi sviluppatori, per rappresentarne l’ampia versatilità, adottarono l’immagine di un lavandino in cui l’acqua fuoriesce. “Era questa l’idea che volevamo comunicare”, spiega Stallman. “La quantità di funzioni al suo interno è allo stesso tempo meravigliosa e terrificante.”

Pag. 118.

1828-31

Quel lavoro con Stallman lo aveva costretto a bloccare ogni stimolo esterno per concentrare tutte le sue energie mentali sull’unico obiettivo che avevano davanti. Ripensando a quella circostanza, Steele sostiene di aver considerato la forza mentale di Stallman esilarante e terrificante al tempo stesso. “Il mio primo pensiero subito dopo fu questo: è stata una grande esperienza, molto intensa, ma non avrei mai voluto ripeterla in vita mia.”

Pag. 120.

1869-73

“L’EMACS non avrebbe potuto vedere la luce tramite un processo di attenta progettazione, poiché simili procedure raggiungono l’obiettivo preposto soltanto nel caso questo risulti visibile e sia auspicabile fin dall’inizio. Né il sottoscritto ne altri potevamo immaginare un elaboratore testi estendibile prima di averlo realizzato, e nessuno avrebbe potuto apprezzarne il valore prima di averlo utilizzato sul campo. L’EMACS esiste perché mi sentivo libero di inserirvi miglioramenti ridotti e unici lungo una strada la cui direzione era impossibile da intravedere.”

Pag. 122.

1878-81

A partire dal prossimo giorno del Ringraziamento inizierò a scrivere un sistema pienamente compatibile con Unix chiamato GNU (Gnu’s Not Unix), distribuito gratuitamente a chiunque vorrà usarlo. Urgono contributi in tempo, denaro, programmi e attrezzature1.

Pag. 123.

1896-98

Per un gioco del destino, il progetto GNU così delineato mancò la data del lancio fissata per il giorno del Ringraziamento (fine novembre). Ma dal gennaio 1984 Stallman rispettò la promessa, immergendosi totalmente nell’ambiente di sviluppo Unix.

Pag. 124.

1902-7

Unix, d’altra parte, era stato ideato tenendo conto delle opzioni di mobilità e funzionalità a lungo termine. Sviluppato originariamente dai giovani ricercatori di AT&T, il programma era sfuggito al radar delle grandi corporation, trovando felice dimora nel mondo squattrinato dell’informatica accademica. Avendo a disposizione risorse inferiori a quelle dei colleghi al MIT, gli sviluppatori Unix si erano curati di personalizzarlo in modo da girare su un vasto assortimento di hardware: qualunque cosa compresa tra il PDP-11 a 16-bit – macchina adatta solo per piccole attività, secondo la maggioranza degli hacker nel laboratorio di intelligenza artificiale – e i mainframe a 32-bit come il VAX 11/780.

Pag. 125.

1966-71

Già dal 1982 la sua avversione per ogni password e segretezza era talmente nota che gli utenti esterni al laboratorio ne usavano l’account come ponte per raggiungere ARPAnet, la rete informatica per la ricerca cui si devono le fondamenta dell’odierna Internet. All’inizio degli anni ’80 tra questi “turisti” c’era anche Don Hopkins, programmatore californiano informato dal giro hacker che per accedere al mitico sistema ITS del MIT bastava inserire le iniziali RMS come login e lo stesso monogramma per la relativa password. “Sarò eternamente grato al MIT per aver consentito al sottoscritto e a molta altra gente il libero accesso a quelle macchine”, afferma Hopkins. “Per parecchi di noi ciò è stato davvero importante.”

Pag. 129.

2029-37

“Avevo deciso di punire la Symbolics, fosse stata l’ultima azione della mia vita”, dice Stallman. Si tratta di un’affermazione rivelatrice, non soltanto perché getta luce sull’indole non-pacifista di Stallman, ma anche perché riflette l’intenso livello emotivo suscitato dal conflitto. Secondo un altro articolo citato da Newquist, ad un certo punto Stallman sembrò talmente fuori di sé che diffuse una e-mail in cui minacciava di “imbottirsi di dinamite per poi entrare negli uffici della Symbolics.”15 Pur negando alcun ricordo di tale e-mail e descrivendone l’eventuale esistenza come una “voce maligna”, Stallman riconosce tuttavia che un simile pensiero gli attraversò la mente. “Pensavo veramente di uccidermi e distruggere così la loro sede”, ricorda. “Credevo che la mia vita fosse finita.”16

Pag. 133.

2039-41

In una successiva intervista via e-mail con Levy, Stallman si paragonò alla figura storica di Ishi, ultimo sopravvissuto della tribù Yahi, spazzata via dalle guerre contro gli indiani d’America in California nel periodo 1860-1870. L’analogia dipinge la posizione di Stallman in termini epici, quasi mitologici.

Pag. 133.

2053-60

Quando la Symbolics smise di inviare i cambiamenti apportati man mano al codice, per tutta risposta Stallman si rinchiuse in ufficio per riscrivere da capo ogni nuova funzione e strumento. Per quanto frustrante, ciò garantiva ai futuri utenti della Lisp Machine il pieno accesso alle medesime funzioni già disponibili a quanti seguivano la Symbolics. Quel lavoro assicurava altresì il consolidamento della fama leggendaria guadagnata da Stallman all’interno della comunità hacker. Già assai nota per i contributi con l’Emacs, la sua abilità di tener testa all’intero gruppo di programmatori della Symbolics – tra i quali erano presenti non pochi hacker già leggendari – rimane tuttora uno dei maggiori successi umani dell’era dell’informazione, o di ogni altra epoca, per quel che possa valere. Definendolo “maestro dell’hacking” e “il John Henry virtuale del codice”, lo scrittore Steven Levy fa notare come molti dei suoi rivali assunti dalla Symbolics non ebbero altra scelta che rendere omaggio al loro ex-collega idealista.

Pag. 134.

2072-76

Mentre si sgranchiva le gambe, finì per imbattersi nella massiccia struttura inutilizzata del PDP-10. Davanti a quelle spie ormai fuori uso, spie che una volta si accendevano e si spegnevano continuamente ad indicare lo stato del programma interno, Stallman subì un impatto emotivo analogo a quello che si prova di fronte al cadavere ben conservato di una persona cara. “Sono scoppiato a piangere in quella stanza”, ricorda. “Vedere lì quella macchina, morta, senza nessuno a prendersene cura, una scena che rifletteva la totale distruzione della mia comunità.”

Pag. 136.

2092-2102

Uno dei più famosi tra questi programmatori era Bill Gates, il quale aveva abbandonato Harvard due anni dopo la laurea di Stallman. A quei tempi i due non si conoscevano, ma già sette anni prima che Stallman inviasse quel messaggio al newsgroup net.unix-wizards, Gates – giovane imprenditore e partner dell’azienda software Micro-Soft, successivamente divenuta Microsoft, con base ad Albuquerque, New Mexico – aveva fatto girare una lettera aperta nella comunità degli sviluppatori. Scritta in replica a quegli utenti di PC che copiavano i programmi della Micro-Soft, la “Lettera aperta agli hobbisti” mirava a colpire l’idea stessa dello sviluppo comunitario del software. “Chi può permettersi di lavorare a livello professionale senza essere retribuito?”, chiedeva Gates. “Quale hobbista è in grado di dedicare tre anni di lavoro per un programma, sistemarne ogni problema, documentarlo adeguatamente per poi distribuirlo gratuitamente?”18 Anche se soltanto pochi hacker del laboratorio d’intelligenza artificiale notarono quel testo nel 1976, la lettera di Gates rappresentava il mutato atteggiamento verso il software sia tra le aziende sia tra gli sviluppatori di ambito commerciale. Perché considerare il software come un bene a costo zero quando il mercato stabiliva il contrario?

Pag. 137.

2120-27

Da ateo convinto, Stallman rifiuta l’idea di destino, di dharma o di un richiamo divino nella vita. Ciò nonostante, considera una scelta naturale quella decisione di lottare contro il software proprietario e di realizzare un sistema operativo per spingere gli altri a seguire il suo esempio. Dopo tutto era stata la combinazione tra testardaggine, lungimiranza e virtuosismo nella programmazione a condurlo davanti a un bivio di cui molta gente non conosceva neppure l’esistenza. Nel descrivere la sua decisione in un capitolo contenuto nel volume del 1999 Open Sources, Stallman cita la spiritualità contenuta nelle parole del sapiente ebraico Hillel19: Se non sono per me stesso, chi sarà per me? E se sono solo per me stesso, che cosa sono? E se non ora, quando?

Pag. 139.

2175-78

Tuttavia, il concetto per cui gli sviluppatori potessero vendere i diritti sul software lo faceva soffrire – o meglio, era soprattutto l’idea secondo cui uno sviluppatore fosse proprietario di diritti da poter rivendere agli altri. In un intervento del 1986 presso lo Swedish Royal Technical Institute, citò l’incidente della UniPress come ulteriore esempio dei pericoli associati con il software proprietario.

Pag. 142.

2189-94

Una di queste tesi – “i programmatori non meritano forse una ricompensa per la loro creatività?” – ottenne una risposta che rifletteva la collera di Stallman verso il recente episodio sull’Emacs di Gosling: “Se c’è qualcosa che merita una ricompensa, questo è il contributo sociale”, scrisse Stallman. “La creatività può ritenersi un contributo sociale ma soltanto finché la società sia libera di usarne i risultati. Se i programmatori meritano di essere ricompensati per la creazione di programmi innovativi, secondo lo stesso criterio meritano di essere puniti quando invece ne limitano l’utilizzo.”23

Pag. 143.

2220-24

“Per me la questione centrale stava nella certezza che se vuoi vivere in maniera decente non puoi trovarti davanti a delle porte chiuse”, sostiene Chassell. “L’idea stessa di avere la libertà di poter risolvere qualcosa, di modificarla, di qualunque faccenda si tratti, è veramente importante. Ti fa pensare con felicità che, dopo aver vissuto così per un po’ di tempo, ciò che hai fatto acquista davvero validità. Perché altrimenti ti viene semplicemente portato via e buttato o abbandonato, oppure quantomeno non hai più alcun rapporto la tua opera. È come perdere un pezzo della propria esistenza.”

Pag. 145.

2309-15

L’analogia con i Grateful Dead è assolutamente pertinente. Nel descrivere le opportunità commerciali inerenti al modello del software libero, non di rado Stallman si è riferito a quell’esempio. Rifiutando di limitare le registrazioni amatoriali dei concerti dal vivo, i Grateful Dead sono diventati molto più di un gruppo rock. Sono divenuti il centro di una comunità tribale dedicata alla loro musica. Con il passare del tempo tale comunità ha assunto proporzioni talmente ampie, confermando al contempo la propria devozione, che il gruppo ha rinunciato ai contratti con le case discografiche per affidarsi unicamente alle entrate dei concerti e dei tour dal vivo. Nel 1994, ultimo anno delle apparizioni sul palco, i Grateful Dead avevano incassato 52 milioni di dollari soltanto con i biglietti venduti ai concerti.

Pag. 151.

2385-96

Citando la forza delle revisioni collaborative, la tesi dell’open source sostiene che programmi come GNU/Linux oppure FreeBSD siano costruiti e verificati in maniera più accurata e di conseguenza risultino più affidabili per l’utente medio. Ciò non implica la mancanza di valenze politiche per il termine “open source”, il quale mira sostanzialmente a due obiettivi. Primo, elimina la confusione associata alla parola “free”, che in inglese ha il doppio significato di “libero” e “gratuito”, tant’è vero che molti imprenditori tendono a interpretarla nel senso di “costo zero”. Secondo, consente alle aziende di prendere in esame il fenomeno del software libero in un contesto tecnologico anziché etico. Eric Raymond, cofondatore della Open Source Initiative e uno dei primi hacker ad abbracciare quel termine, riassume efficacemente la frustrazione di dover seguire Stallman sul terreno politico in un saggio del 1999 intitolato “Shut Up and Show Them the Code” (Smetti di parlare e fagli vedere il codice): La retorica di RMS è molto seducente per gente come noi. Noi hacker ci riteniamo pensatori e idealisti sempre aperti al richiamo dei “principi”, della “libertà”, dei “diritti”. Anche quando ci troviamo in disaccordo sui bit di qualche suo programma, siamo convinti che lo stile retorico di RMS debba funzionare comunque; rimaniamo sconcertati e increduli quando questo non si verifica con il 95% di quanti non sono “wired” come noi.4

Pag. 156.

2411-14

Come un ebreo con i cibi kosher o un mormone che rifiuta di bere alcolici, Stallman dipinge la propria decisione di usare il software libero in luogo di quello proprietario con i colori della tradizione e del credo personale. Come si usa fra gli evangelisti del software, Stallman evita però di forzare i presenti ad accettare le sue opinioni a ogni costo. In ogni caso, è raro il caso in cui, dopo averlo ascoltato, qualcuno se ne vada senza sapere quale sia la vera strada che conduce alla legittimità del software.

Pag. 158.

2461-62

“Talvolta qualcuno mi chiede se nella Chiesa dell’Emacs non sia considerato peccato ricorrere al vi”, dice. “Usarne una versione libera non è peccato, ma è una penitenza. Happy hacking a tutti.”

Pag. 161.

2475-77

“Arrivano a milioni e finiscono per insediarsi in quartieri-ghetto, ma nessuno s’impegna per il passo successivo: farli uscire da quei ghetti. Se ritenete che parlare del software libero sia una buona strategia, allora prodighiamoci per la fase successiva. Parecchie persone lavorano per arrivare sul primo scalino, ne servono assai di più per raggiungere il secondo.”

Pag. 162.

2567-72

“Richard aveva un’opinione assai precisa sulle modalità di funzionamento”, afferma Fischer. “Partiva da due principi di base. Primo, fare in modo che il software rimanesse il più aperto possibile. Secondo, incoraggiare gli altri ad adottare le medesime procedure sulle licenze.” Quest’ultimo punto significava tappare le falle da cui erano emerse le diverse versioni private dell’Emacs. Per farlo, Stallman e i colleghi del software libero trovarono una soluzione: gli utenti sarebbero stati liberi di modificare il GNU Emacs fin tanto che ne pubblicavano ogni cambiamento. Inoltre, le opere “derivate” avrebbero mantenuto l’identica licenza apposta in calce a quel programma.

Pag. 168.

2591-92

Stilando il testo per la licenza dell’Emacs versione GNU, Stallman fece qualcosa in più che bloccare la fuga verso derivati proprietari. Riuscì a esprimere l’etica hacker in maniera comprensibile sia per gli avvocati sia per gli stessi

Pag. 169.

2624-32

È così che la GPL rimane una delle migliori creature partorite da Stallman. Grazie a essa, venne a crearsi un sistema di proprietà condivisa all’interno dei normali confini della legislazione sul copyright. Fatto ancor più importante, questo mise in evidenza la somiglianza intellettuale tra il codice legale e quello del software. Il preambolo della GPL conteneva un profondo messaggio implicito: anziché considerare con sospetto le norme sul copyright, gli hacker avrebbero dovuto interpretarle come un ulteriore contesto su cui poter intervenire. “La GPL prese forma in maniera analoga a qualsiasi programma di software libero, facendo affidamento su un’ampia comunità che ne discuteva la struttura, sul rispetto delle posizioni contrarie, sulla necessità di addolcirla e anche di trovare un compromesso per garantirne la maggiore accettazione possibile”, sostiene Jerry Cohen, un altro avvocato che aiutò Stallman nella messa a punto della licenza. “Il procedimento funzionò molto bene e nelle successive versioni della GPL si è passati da una reazione diffusamente scettica e talvolta ostile a un’accettazione assai vasta.”

Pag. 172.

2639-48

Mentre Stallman rifletteva sulle questioni etiche, politiche e legali legate al software libero, un hacker californiano rispondente al nome di Don Hopkins gli rispedì un manuale per il microprocessore 68000. Hopkins, specializzato in Unix e amante della fantascienza, lo aveva ricevuto in prestito da Stallman tempo addietro. In segno di riconoscenza, Hopkins decorò la busta con adesivi presi a un incontro locale sulla fantascienza. Uno di questi catturò l’attenzione di Stallman. Diceva, “Copyleft (L), All Rights Reversed” (Copyleft (L), tutti i diritti rovesciati).6 Con la diffusione della prima versione della GPL, egli decise di adattarvi quella dicitura, dando alla licenza sul software libero il soprannome di “Copyleft”. Col tempo, tale soprannome e il relativo simbolo, una “C” rovesciata, sarebbero divenuti il sinonimo ufficiale apposto dalla stessa Free Software Foundation a ogni tipo di copyright “che vuole che ogni programma sia ‘software libero’ e che lo stesso valga per tutte le sue versioni modificate e ampliate”.

Pag. 173.

2648-56

Una volta il sociologo tedesco Max Weber avanzò il sospetto che tutte le grandi religioni siano fondate sulla “routinizzazione” o l’“istituzionalizzazione” del carisma. Ogni religione di successo, sosteneva Weber, converte il carisma o il messaggio del leader originario in un apparato sociale, politico ed etico più facilmente traducibile nel passaggio tra le varie epoche e culture. Pur se di natura tutt’altro che religiosa, la GPL si pone certamente come interessante esempio di un analogo “processo di routinizzazione” attivato all’interno dell’ambito moderno e decentralizzato tipico dello sviluppo del software. Fin dalla sua diffusione, i programmatori e le aziende che si erano dimostrati poco fedeli o leali nei confronti di Stallman optarono per l’immediata accettazione dei termini previsti dalla GPL. Per alcuni essa si è addirittura trasformata in un meccanismo preventivo per la tutela dei propri programmi. Anche quanti la rifiutano ritenendola un contratto che comporta obblighi eccessivi non possono fare a meno di confermarne l’importanza.

Pag. 173.

2685-89

“Direi che l’esistenza stessa della GPL ispirò molta gente a chiedersi se il software su cui stavano lavorando fosse davvero libero e quale fosse la licenza più adeguata sotto cui distribuirlo”, sostiene Bruce Perens, creatore di Electric Fence, nota utility Unix, e futuro leader del gruppo di sviluppo di Debian per GNU/Linux. Qualche anno dopo la diffusione della GPL, Perens rammenta di aver abbandonato la licenza prevista per Electric Fence, preferendo adottare quella più corretta a livello legale messa a punto da Stallman. “In realtà si rivelò un’operazione assai semplice”, ricorda Perens.

Pag. 176.

2706-13

Uno dei primi imprenditori ad appropriarsi di una simile idea fu Michael Tiemann, programmatore e laureando presso la Stanford University. Durante gli anni ‘80, Tiemann aveva seguito il progetto GNU come un aspirante musicista jazz segue l’artista preferito. Dovette tuttavia attendere la distribuzione del GNU Compiler C (GCC) del 1987 prima di poter afferrare in pieno le potenzialità del software libero. Definendolo “una bomba”, Tiemann ritiene la sola esistenza di quel programma sufficiente a evidenziare la determinazione di Stallman nelle vesti di programmatore. “Proprio come ogni scrittore sogna di scrivere un grande romanzo, così negli anni ’80 ogni programmatore non parlava d’altro se non di realizzare un grande compilatore”, rammenta Tiemman. “Improvvisamente Stallman ci era riuscito. Fu una cosa umiliante.” “Se vogliamo isolare un solo punto di svolta, quello fu il GCC”, concorda Bostic. “Prima del suo lancio, nessuno poteva vantarsi di avere un compilatore.”

Pag. 177.

2747-53

Comunque sia, mentre sul finire degli anni ’80 gli strumenti GNU iniziavano a lasciare il segno, la reputazione acquisita da Stallman all’epoca del laboratorio di intelligenza artificiale, per quanto riguarda l’eccessiva pignoleria progettuale, divenne leggendaria nell’intera comunità degli sviluppatori. Jeremy Allison, allora utente Sun e programmatore destinato a lanciare un decennio più avanti un proprio progetto di software libero, Samba, rammenta quella reputazione ridendoci sopra. Durante gli ultimi anni ’80, Allison iniziò a usare l’Emacs. Ispirato dal modello di sviluppo comunitario, dice di aver inviato a Stallman il proprio contributo solo per vederselo rifiutare. “Si può riassumere il tutto con un titolo della testata satirica online Onion”, scherza Allison. “Qualcosa tipo, ‘Dio dice no alle preghiere di un fanciullo.”’

Pag. 180.

2754-57

La crescente statura di Stallman come programmatore veniva tuttavia controbilanciata dai problemi in cui si dibatteva nelle vesti di project manager. Anche se GNU passava di successo in successo nella creazione di strumenti per lo sviluppo, l’incapacità di generare un kernel funzionante – il programma di controllo centrale di tutti i sistemi Unix capace di determinare quali periferiche e applicazioni debbano avere accesso al microprocessore e quando – anche prima della fine degli anni ’80 stava provocando qualche mugugno di delusione.

Pag. 180.

2798-2801

Pur se lontano dalle posizioni “sociopolitiche” di Stallman, Torvalds considerò comunque positiva la logica che lo motivava: nessun programmatore scrive codice privo di errori. Grazie alla condivisione del software, per gli hacker il miglioramento di un programma diviene la molla prioritaria rispetto a motivazioni individuali quali cupidigia o egoismo.

Pag. 183.

2811-23

Nell’estate 1991 Torvalds iniziò così a riscrivere da capo Minix, aggiungendovi nello stesso tempo nuove funzioni. A fine estate parlava del suo lavoro come “del GNU/Emacs degli emulatori di terminale”.16 Sentendosi sicuro, chiese al newsgroup Minix copie degli standard POSIX, il software di base che stabiliva la compatibilità di un programma con Unix. E qualche settimana dopo fece girare online un messaggio stranamente analogo al testo originario relativo a GNU, diffuso da Stallman nel 1983: Un saluto a tutti coloro che usano minix Sto lavorando su un sistema operativo (libero), giusto per hobby, nulla di grande e professionale come gnu, per i cloni AT 386 (486). È in costruzione da aprile, e si può dire quasi pronto. Vorrei ricevere commenti su quello che vi piace o non vi piace in minix, poiché il mio sistema operativo gli assomiglia parecchio (tra le altre cose ha la stessa configurazione fisica del file-system, per motivi pratici).17 Il messaggio attirò una valanga di risposte e, nel giro di un mese, Torvalds inseriva su un sito FTP la versione 0.01 del sistema operativo – ovvero, la prima stesura che fosse possibile sottoporre a revisioni esterne. Nel frattempo aveva anche trovato un nome per il nuovo sistema. Sul disco fisso del PC, lo aveva salvato come Linux, in omaggio alla consuetudine di chiamare ogni variazione di Unix con un nome che finisse in X.

Pag. 184.

2844-51

Entro il 1994, il sistema operativo così amalgamato aveva guadagnato sufficiente considerazione nel mondo hacker, tanto che alcuni osservatori si chiesero se Torvalds non avesse fatto male ad abbracciare la GPL nella fase iniziale del progetto. Nel primo numero della rivista Linux Journal, l’editore Robert Young tenne un’intervista a quattr’occhi con Torvalds. Alla domanda se non si fosse pentito di aver rinunciato alla proprietà privata del codice, il programmatore finlandese rispose di no. “Anche con il senno di poi”, questa la replica di Torvalds, considerava l’adesione alla GPL “una delle decisioni migliori” prese durante i primi passi del progetto Linux.20 Una decisione, non certo presa per rispetto o deferenza nei confronti di Stallman e della Free Software Foundation, che testimonia la crescente portabilità della GPL.

Pag. 186.

2972-77

Come Tom Sawyer, che imbiancava uno steccato grazie all’aiuto altrui, il genio di Torvalds stava meno nella visione complessiva e più nella capacità di coinvolgere altri hacker per accelerare il processo. Il fatto che Torvalds, assieme ai suoi, fosse riuscito laddove altri avevano fallito suscitava domande scomode: che cosa rappresentava esattamente Linux? Si poteva forse considerare la manifestazione di quella filosofia del software libero articolata per primo da Stallman nel Manifesto GNU? O era semplicemente un amalgama di buoni programmi che qualunque utente, ugualmente motivato, avrebbe potuto assemblare sul proprio sistema casalingo?

Pag. 194.

2999-3005

Ricorda Stallman: “Mi fu poi spiegato che il software era modellato sulla base del System V, una versione inferiore di Unix, e che non poteva essere adattato ad altre piattaforme”. Il rapporto dell’amico era corretto. Costruito per girare su macchine basate sul 386, Linux era fermamente radicato in quelle piattaforme a basso costo. Quel che l’amico mancò di segnalare, tuttavia, fu il notevole vantaggio che Linux godeva in quanto unico sistema operativo liberamente modificabile presente sul mercato. In altri termini, mentre Stallman trascorse i tre anni successivi ad ascoltare i problemi riportati dal gruppo che lavorava su HURD, Torvalds andava conquistandosi quei programmatori che in seguito avrebbero rivisitato il sistema così da adattarlo ad altre piattaforme.

Pag. 196.

3040-46

Pur se in ritardo per partecipare alla festa, Stallman esercitava ancora parecchia influenza. Non appena la FSF annunciò il prestito di denaro e sostegno morale al progetto di Murdock, piovvero altre offerte di supporto. Murdock chiamò il nuovo progetto Debian – contrazione del suo nome e di quello della moglie, Deborah – e nel giro di un paio di settimane la prima distribuzione era cosa fatta. “Quasi da un giorno all’altro, [il sostegno di Richard] catapultò Debian da quel piccolo progetto interessante a qualcosa cui l’intera comunità doveva prestare attenzione”, spiega Murdock. Nel gennaio 1994, egli diffuse il “Manifesto Debian”. Redatto nello spirito del “Manifesto GNU” stilato da Stallman un decennio prima, sottolineava l’importanza di lavorare a stretto contatto con la Free Software Foundation.

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3095-98

Nel 1996, Murdock, dopo aver ottenuto il diploma di laurea alla Purdue, decise di passare ad altri le redini del progetto Debian. Ne aveva già ceduto le responsabilità gestionali a Bruce Perens. Al pari di Murdock, Perens era un programmatore Unix innamoratosi di GNU/Linux non appena divennero chiare le capacità del programma. E come Murdock, Perens aderiva al piano politico di Stallman e della Free Software Foundation, pur se da lontano.

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3117-20

“Nella tradizione scientifica occidentale si usa salire sulle spalle dei giganti”, afferma Young, facendo eco alle parole di Torvalds e prima ancora di Sir Isaac Newton. “In campo imprenditoriale questo significa che non occorre reinventare la ruota man mano che si progredisce. La bellezza del modello [GPL] sta nell’aver reso il codice di pubblico dominio.9

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3230-32

“Fu un momento storico”, rammenta Raymond. “Prima del 1996, Richard era l’unico credibile a potersi candidare come leader ideologico dell’intera cultura. Quelli che dissentivano non lo facevano certo in pubblico. Torvalds riuscì a infrangere quel tabù.”

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3244-49

Per Raymond, la calda accoglienza che gli altri hacker riservarono ai commenti di Torvalds non fece altro che confermare certi sospetti. La linea divisoria che separava gli sviluppatori Linux da quelli GNU/Linux era per lo più generazionale. Parecchi hacker Linux, compreso lo stesso Torvalds, erano cresciuti nel mondo del software proprietario. A meno che un programma risultasse chiaramente peggiore, la maggior parte di loro non vedeva alcun motivo per rifiutarlo solo per il problema della licenza. Da qualche parte nell’universo del software libero stava nascosto un programma che forse un giorno qualche hacker avrebbe trasformato in alternativa a PowerPoint. Ma fino a quel momento, perché invidiare alla Microsoft l’idea di aver realizzato quel programma e di essersene riservati i diritti?

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3256-62

Poco dopo la “Conferenza sul software liberamente ridistribuibile”, Raymond iniziò a lavorare su un proprio progetto, una utility popmail chiamata “fetchmail”. Seguendo un suggerimento di Torvalds, Raymond distribuì il programma con la relativa promessa di aggiornarne il codice nel modo più rapido e frequente possibile. Quando gli utenti iniziarono a segnalare problemi ed eventuali migliorie, Raymond, che si aspettava di dover sbrogliare una complicata matassa, rimase meravigliato dalla robustezza del software risultante. Analizzando il successo dell’approccio proposto da Torvalds, giunse a una rapida conclusione: usando Internet come “scatola di Petri” e la verifica minuziosa della comunità hacker come forma di selezione naturale, Torvalds aveva creato un modello evolutivo che non prevedeva una pianificazione centralizzata.

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3262-71

Fatto ancora più rilevante, decise Raymond, Torvalds era riuscito ad aggirare la Legge di Brooks. Articolata per la prima volta da Fred P. Brooks, manager del progetto OS/360 dell’IBM e autore nel 1975 del libro The Mythical Man-Month, la Legge sostiene che aggiungere nuovi sviluppatori a un progetto finisce per causarne soltanto ulteriori ritardi. Al pari della maggioranza degli hacker, Raymond riteneva che il software, come una zuppa, riusciva meglio se in cucina lavoravano pochi cuochi e quindi percepiva che qualcosa di rivoluzionario si stava profilando all’orizzonte. Invitando in cucina un numero sempre maggiore di cuochi, in realtà Torvalds era riuscito a produrre un software migliore.3 Raymond mise su carta quelle osservazioni, per trasformarle poi in un discorso che tenne subito alla presenza di alcuni amici e vicini a Chester County, Pennsylvania. L’intevento, dal titolo “The Cathedral and the Bazaar” (La cattedrale e il bazaar), metteva a confronto lo stile manageriale del progetto GNU con quello di Torvalds e degli hacker del kernel Linux.

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3275-84

Alla fine Raymond trasferì quel discorso in un testo scritto, anch’esso intitolato “La cattedrale e il bazaar”, a sottolineare l’analogia che costituiva il centro dell’analisi. I programmi GNU sembravano “cattedrali”, monumenti all’etica hacker, impressionanti, pianificati in modo centralizzato, costruiti per durare nel tempo. Linux, d’altra parte, era più simile a “un grande bazaar vociante”, un programma sviluppato grazie alle dinamiche sciolte e decentrate offerte da Internet. Implicito in ogni analogia stava il raffronto tra Stallman e Torvalds. Laddove il primo rappresentava il classico modello di architetto di cattedrali – un “mago” della programmazione capace di sparire per 18 mesi per tornare con qualcosa come il GNU C Compiler – il secondo sembrava piuttosto il geniale organizzatore di una festa. Lasciando condurre agli altri la discussione sulla progettazione di Linux e intervenendo soltanto quando si rendeva necessaria la presenza di un arbitro, Torvalds era riuscito a creare un modello di sviluppo che rifletteva decisamente il proprio carattere di persona tranquilla, rilassata. Dal suo punto di vista, il compito manageriale più importante consisteva non nell’imposizione del controllo bensì nella continua assistenza nel favorire il fluire delle idee.

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3285-93

Raymond conclude, in sintesi: “Credo che l’opera di hacking più sagace e coerente di Linus non sia stata la costruzione del kernel in sé, quanto piuttosto l’invenzione di quel nuovo modello di sviluppo”4. Nel riassumere i segreti del successo gestionale di Torvalds, lo stesso Raymond mise a segno un buon colpo. Tra i presenti in sala a quel Linux Kongress c’era Tim O’Reilly, editore specializzato in manuali e libri sul software. Dopo averne seguito l’intervento, O’Reilly lo invitò subito a ripeterlo durante la prima Perl Conference, organizzata dalla casa editrice qualche mese più tardi a Monterey, California. Anche se centrato su Perl, linguaggio di scripting creato dall’hacker Unix Larry Wall, O’Reilly assicurò Raymond che l’evento si sarebbe occupato anche di altre tematiche connesse con il software libero. Considerando il crescente interesse commerciale nei confronti di Linux e di Apache, un noto server web di software libero, l’incontro voluto da O’Reilly avrebbe pubblicizzato il ruolo del software libero nella creazione dell’intera infrastruttura di Internet.

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3309-15

Quando il responsabile di Netscape Jim Barksdale citò il saggio “La cattedrale e il bazaar” definendolo il principale responsabile di tale decisione, la società elevò immediatamente il suo autore al livello di celebrità hacker. Deciso a non lasciarsi sfuggire l’occasione, Raymond volò in California per concedere interviste, offrire consigli ai dirigenti di Netscape e presenziare alla grande festa in onore della diffusione dei sorgenti di Navigator. Questi vennero riuniti sotto il nome di “Mozilla”, con riferimento sia alla mole mastodontica del programma – 30 milioni di righe di codice – sia al suo asse ereditario. Sviluppato come derivato proprietario di Mosaic, il browser originariamente creato da Marc Andreessen alla University of Illinois, Mozilla costituiva la prova, ancora un volta, del fatto che quando si tratta di realizzare nuovi programmi la maggioranza degli sviluppatori preferisce operare su versioni già esistenti e modificabili.

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3377-84

“È fuor di dubbio che l’utilizzo della parola ‘free’ abbia creato parecchia confusione”, spiega Tiemann. “Il termine ‘open source’ si posizionava in modo amichevole e sensibile nei confronti del mondo imprenditoriale, mentre ‘free software’ voleva essere moralmente corretto. Nel bene o nel male, ritenemmo più vantaggioso allinearci con quanti optarono per ‘open source’.” La risposta di Stallman alla nuovo terminologia si fece attendere. Raymond sostiene che Richard considerò per qualche tempo la possibilità di adottarla, per poi decidere di rifiutarla. “Lo so perché ne discutemmo in maniera specifica”, afferma Raymond. Alla fine del 1998 Stallman aveva chiarito la propria posizione: open source, pur risultando utile nel comunicare i vantaggi tecnici del software libero, al contempo finiva per allontanarsi dalla questione della libertà nel software. Considerando questo un aspetto negativo, Stallman avrebbe continuato a usare il termine “free software”.

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3408-10

“Richard mi piace davvero, lo ammiro”, affermò Perens. “Ma credo che svolgerebbe meglio il proprio ruolo se mostrasse maggiore equilibrio. Per esempio se si prendesse qualche periodica vacanza di un paio di mesi dal software libero.”

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3422-34

Tra questi fortunati azionisti si annoverava anche Eric Raymond, il quale, membro del direttivo aziendale fin dal lancio di Mozilla, aveva ricevuto 150.000 azioni di VA Linux. Colpito dal fatto che quel saggio sui contrastanti stili manageriali di Stallman e Torvalds gli avesse fruttato qualcosa come 36 milioni di dollari, almeno sulla carta, decise di dargli un seguito. Nel suo nuovo saggio, Raymond rifletteva sul rapporto tra etica hacker e ricchezza monetaria: In questo periodo capita spesso che i giornalisti mi chiedano se la comunità open source finirà per essere corrotta da questo grande flusso di denaro. Rispondo per come la vedo io: la domanda di programmatori da parte delle aziende è stata così intensa e così a lungo che quanti potevano essere seriamente distratti dal denaro hanno già fatto i bagagli. La nostra comunità ha prodotto un’autoselezione interna sulla base dell’attenzione riservata ad altri elementi – risultati concreti, orgoglio, passione artistica e comunanza.10 Che riescano o meno a dissipare il sospetto che Raymond e altri proponenti dell’open source abbiano agito per denaro, tali commenti paiono comunque chiarire il messaggio centrale dell’intera comunità: tutto quel che serve per vendere l’idea del software libero è un volto simpatico e un messaggio sensato. Anziché combattere il mercato frontalmente, come aveva fatto Stallman, Raymond, Torvalds e gli altri nuovi leader della comunità hacker avevano adottato un atteggiamento più rilassato, ignorando il mercato in certi settori, facendo leva su di esso in altri.

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3435-44

“Nelle sue giornate peggiori, Richard ritiene che io e Linus Torvalds abbiamo cospirato per dirottare la sua rivoluzione”, sostiene Raymond. “Secondo me, il rifiuto del termine ‘open source’ e la deliberata creazione di un confronto ideologico da parte sua, derivano da uno strano miscuglio di idealismo e di territorialità. Parecchia gente è convinta che sia tutta colpa dell’ego personale di Richard. Non credo sia così. C’entra di più il fatto che, identificandosi a tal punto con l’idea del software libero, considera qualunque posizione diversa su questo punto alla stregua di una minaccia personale.” Ironicamente però il successo dell’open source e dei suoi sostenitori, come Raymond, non ha comportato il ridimensionamento di Stallman nel suo ruolo di leader. Sembra anzi fornirgli nuovi seguaci da convertire. Eppure le accuse di territorialità avanzate da Raymond rivelano una certa fondatezza. Non si contano le situazioni in cui Stallman è rimasto tutto d’un pezzo più per abitudine che per i principi in gioco: il suo iniziale disinteresse per il kernel Linux, ad esempio, e la sua attuale opposizione, in quanto figura politica, ad avventurarsi al di fuori del regno del software.

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3462-65

legge di Brooks può considerarsi la sintesi della seguente citazione tratta dal suo libro: Poiché la costruzione del software è intrinsecamente un lavoro sistemico – un esercizio di complesse interrelazioni – richiede un notevole sforzo comunicativo, e ciò finisce per imporre la rapida diminuzione del tempo di lavoro individuale causato dall’ulteriore suddivisione dello stesso. Aggiungere nuove persone quindi allunga i tempi, invece di accorciarli.

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3528-36

Osservando l’ignaro autista che ci precede, mi rendo come sia proprio quella stupidità, non tanto la circostanza poco simpatica, a far dannare in quel momento Stallman. “Sembra che abbia scelto la strada senza assolutamente pensare al modo più efficiente per arrivare a destinazione”, insiste Stallman. La parola “efficiente” rimane nell’aria come un cattivo odore. Sono poche le cose che irritano la mente hacker più dell’inefficienza. Fu l’inefficienza di dover andare a verificare di persona due o tre volte al giorno la stampante laser della Xerox che spinse Stallman a occuparsi una prima volta del suo codice. Fu l’inefficienza di dover riscrivere programmi contrabbandati dai rivenditori di software commerciale che lo convinsero a opporsi alla Symbolics e a lanciare il progetto GNU. Se l’inferno sono gli altri, come opinò una volta Jean Paul Sartre, l’inferno hacker sta nella duplicazione degli stupidi errori altrui, e non è esagerato affermare che l’intera esistenza di Stallman è stata un tentativo di salvare l’umanità da simili abissi infuocati.

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3614-17

Tali osservazioni mettono in luce il forte impatto, spesso sottovalutato, della GPL e indirettamente la genialità politica della persona che ha rivestito un ruolo di primo piano nella sua creazione. “Non esiste sulla terra un avvocato che ne avrebbe stilato il testo così com’è”, sostiene Eben Moglen, professore di legge presso la Columbia University e consulente legale della Free Software Foundation. “Ma funziona. E funziona grazie alla filosofia progettuale di Richard.”

Pag. 236.

3617-30

Ex-programmatore professionista, Moglen iniziò a collaborare gratuitamente con Stallman fin dal 1990, quando quest’ultimo ne richiese l’assistenza per una questione privata. Moglen, allora impegnato nelle battaglie legali a difesa dell’esperto di crittazione Philip Zimmerman2 contro il governo federale, dice di essersi sentito onorato da quella richiesta. “Gli spiegai che usavo l’Emacs ogni giorno, e ci sarebbero volute molte consulenze legali prima di poterlo ripagare di quel debito.” Da allora, Moglen ha avuto forse più di qualunque altro la possibilità di osservare da vicino l’applicazione in ambito legale delle filosofie hacker di Stallman. Secondo Moglen, il suo approccio al codice legale e a quello del software è sostanzialmente identico. “Da avvocato, devo dire che non ha molto senso l’idea secondo cui anche in un documento legale tutto quello che bisogna fare è scoprirne i difetti per poi passare a correggerli”, spiega Moglen. “Ogni procedimento legale riveste per sua natura caratteristiche di ambiguità e agli avvocati spetta catturare i benefici di tale ambiguità a favore dei propri clienti. Invece Richard mira a una posizione completamente opposta. Vorrebbe eliminare quest’ambiguità, operazione intrinsecamente impossibile. Non è possibile stilare una licenza in grado di controllare tutte le circostanze di tutti i sistemi legali in ogni parte del mondo. Ma se è lì che si vuole arrivare, allora bisogna farlo a modo suo. E l’eleganza, la semplicità progettuale che ne risultano riescono quasi a raggiungere l’obiettivo prefissato. Da questo punto in poi, basta l’intervento di un avvocato per arrivare molto lontano.”

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3645-49

La crescente popolarità e la continua energia gravitazionale ottenute dalla GPL rappresentano i migliori tributi alle fondamenta create da Stallman e dagli altri colleghi del progetto GNU. Anche se non gli è più possibile autodefinirsi “ultimo vero hacker”, Stallman può comunque vantarsi di aver costruito da solo il contesto etico alla base del movimento del software libero. Poco importa se gli attuali programmatori si sentano o meno a proprio agio nell’operare all’interno di tale contesto. Il fatto stesso che possano avere l’opportunità di affrontare una simile scelta costituisce il lascito più importante di Stallman.

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3664-67

I primi raffronti comprendono Henry David Thoreau, filosofo trascendentalista nonché autore di On Civil Disobedience, e John Muir, fondatore del Sierra Club e progenitore del movimento ambientalista moderno. È inoltre facile notare somiglianze con individui tipo William Jennings Bryan, noto anche come “The Great Commoner” (Il grande comunitario), leader del movimento populista, nemico dei monopoli e persona che, pur se dotata di grande prestigio, oggi sembra scomparsa dagli annali della storia.

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3675-82

In quel “paio di altri individui” che Moglen vuole come protagonisti di altrettanti capitoli nei futuri testi scolastici, troviamo John Gilmore, consigliere di Stallman sulla GPL e successivo co-fondatore della Electronic Frontier Foundation, e Theodor Holm Nelson, meglio noto come Ted Nelson, autore nel 1982 del libro Literary Machines. Secondo Moglen, la rilevanza storica di figure quali Stallman, Nelson e Gilmore si pone in maniera significativa senza reciproche sovrapposizioni. A Nelson, a cui viene generalmente attribuita la paternità del termine “ipertesto”, va riconosciuto il merito di aver evidenziato la difficile situazione della proprietà dell’informazione nell’era digitale. Gilmore e Stallman hanno invece il merito di aver individuato gli effetti politici negativi derivanti dal controllo dell’informazione e per aver contribuito alla nascita di organizzazioni – la Electronic Frontier Foundation nel caso di Gilmore e la Free Software Foundation per Stallman – il cui obiettivo rimane quello di controbilanciare tali effetti negativi.

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3691-3700

Un altro elemento dell’eredità di Stallman da non sottovalutare, prosegue il testo di Gilmore, rimane il modello di sviluppo collaborativo del software, di cui si è fatto pioniere il progetto GNU. Pur se talvolta difettoso, tale modello si è comunque evoluto in standard oggi comuni nell’industria del software. Ciò detto, conclude Gilmore, si tratta di un modello cooperativo che potrebbe avere maggiore influenza perfino del progetto GNU, della licenza GPL o di qualsiasi programma sviluppato da Stallman: Prima dell’arrivo di Internet, era alquanto difficile collaborare a distanza nella creazione di un software, anche all’interno di gruppi che si conoscevano e che si fidavano l’uno dell’altro. Richard è stato il primo ad avviare questi sforzi cooperativi, coinvolgendo soprattutto una serie di volontari disorganizzati, che finiscono per incontrarsi assai di rado. Richard non ha realizzato nessuno degli strumenti di base necessari a concretizzare tutto questo (il protocollo TCP, le mailing list, diff e patch, i file tar, RCS o CVS o remote-CVS), ma è riuscito tuttavia a impiegare al meglio le persone disponibili per dar vita a gruppi sociali di programmatori in grado di collaborare efficacemente tra loro.

Pag. 241.

3700-3710

Lawrence Lessig, professore di legge a Stanford e autore nel 2001 dell’opera The Future of Ideas, si mostra ugualmente ottimista. Come molti studiosi di diritto, egli considera la GPL un pilastro fondamentale della cosiddetta “collettività digitale”, quel vasto agglomerato composto da programmi dalla proprietà condivisa e da standard di rete e di telecomunicazione cui si deve la crescita esponenziale di Internet negli ultimi trent’anni. Anziché inserire Stallman tra i pionieri di Internet, uomini come Vannevar Bush, Vinton Cerf e J.C.R. Licklider che convinsero la gente a considerare la tecnologia informatica in una prospettiva più ampia, Lessig considera l’impatto di Stallman importante soprattutto a livello personale, introspettivo e, in ultima analisi, come un elemento decisamente unico: [Stallman] ha spostato il dibattito da “è“ a “dovrebbe”. Ha messo in chiaro l’importanza della posta in gioco, realizzando un sistema in grado di portare avanti questi ideali… Ciò detto, non lo vedrei di fianco a Cerf o Licklider. L’innovazione è qualcosa di diverso. Nel suo caso, non si tratta soltanto di un determinato tipo di codice, o del lancio di Internet in generale. Riguarda maggiormente la capacità di mostrare alla gente il valore di un certo sviluppo di Internet. Non credo esista nessun altro in quest’ambito, prima o dopo di lui.

Pag. 242.

3757-58

“Fu divertente”, rammenta. “Gli dissi, ‘Sai Richard, io e te siamo gli unici due a non aver intascato un soldo da questa rivoluzione’. E poi pagai per il pranzo, perché sapevo che lui non poteva permetterselo.”

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4015-18

“Ammiro molto il modo in cui Richard è riuscito a costruire un vero e proprio movimento politico muovendo da una questione profondamente individuale”, disse per spiegare la sua attrazione per Stallman. Mia moglie rilanciò immediatamente la domanda: “Di quale questione si trattava?” “Come sconfiggere la solitudine.”

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4034-42

Quando gli menzionai la battuta di Sarah su “come sconfiggere la solitudine”, Stallman non riuscì a notare la connessione tra la solitudine a livello fisico o spirituale e quella di un hacker. “L’impulso a condividere il codice è basato sull’amicizia, ma in un ambito di gran lunga inferiore”, sostenne. Ma in seguito, quando la questione non tardò a ripresentarsi, dovette ammettere che la solitudine, o meglio, la paura della solitudine eterna, aveva giocato un ruolo di primo piano nella sua determinazione ad andare avanti nella prima fase del progetto GNU. “Il fascino del computer non rappresentava nulla di esterno”, spiegò. “Non ne sarei rimasto meno ammaliato anche se fossi stato una persona famosa oppure se avessi avuto frotte di donne intorno a me. È però certamente vero che l’esperienza di non avere avuto una casa, trovarne una e perderla, poi trovarne un’altra e vedersela distruggere, tutto ciò mi colpì profondamente. Quella perduta fu il dormitorio, quella distrutta il laboratorio di intelligenza artificiale. La precarietà di non poter fare affidamento su alcun tipo di casa o di comunità, provocò pesanti conseguenze. Mi spinse a combattere per riconquistare tutto ciò.”

Pag. 264.